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IL SOGNO, LO SGUARDO E LA VISIONE IN RAFFO

IL SOGNO, LO SGUARDO E LA VISIONE IN RAFFO

Sono le parole scelte da Silvio Raffo in apertura del suo libro La ferita celeste (La vita felice) a suggerire al lettore, come in una sorta di anticipazione, i motivi ricorrenti delle poesie che vi sono ospitate. In una brevissima lirica, che si potrebbe a ragione definire programmatica, leggiamo: Nel ricamo della mia vita / ha gli orli dorati il dolore. / Il pugnale che incide la ferita / è l’ala di un celeste tessitore.  A ben vedere, a voler persino penetrare nelle intenzioni, in questi versi è contenuto il titolo stesso del libro. Si parla infatti di ferita e il termine è poco distante dall’aggettivo celeste, che è il colore del cielo e che allude anche al divino. Due mondi sembrano pertanto convivere nel titolo, così come due anime antitetiche coesistono nel poeta e nel suo canto, costantemente in bilico fra corpo e anima, terreno e divino, precarietà ed eternità. Ma nei versi testé citati possiamo rintracciare ulteriori elementi: l’idea dell’eleganza del ricamo che rispecchia la ricercatezza formale delle poesie e l’ideale etico-estetico della grazia; e poi il tentativo, quasi rassegnato, di vivere il dolore (che ha appunto “orli dorati”) nella consapevolezza che l’esistenza umana debba necessariamente prevederlo e comprenderlo. Ma questi versi ci dicono anche dei cardini della poetica di Raffo: un canto suadente che contempla tanto l’uso costante della rima quanto l’attenzione alla metrica e che fa della fluidità e della musicalità la sua regola, così da divenire quasi ipnotico. Del resto, nella postfazione, Silvio Aman costruisce un breve saggio che appropriatamente intitola “Le ondose malie del poeta-sirenide” proprio a rimarcare il carattere avvolgente, ammaliante, coinvolgente delle poesie. In realtà, prima della poesia introduttiva, ve ne è un’altra non meno importante che la specchia ed è la citazione di Emily Dickinson di cui Raffo è illustre e importante traduttore (le sue traduzioni sono ospitate nel prestigioso volume mondadoriano dei Meridiani che raccoglie l’opera omnia della poetessa statunitense): Heavenly hurt it gives us / and can find no scar. Allora la domanda che ci si pone immediatamente non può essere che questa: di quale ferita si parla? Quale ne è l’origine? La prima sezione “L’errore di Dio” ce ne svela la traccia: la sofferenza deriva dalla dicotomia a cui si accennava in precedenza, la doppia anima dell’uomo che nella figura del Poeta è particolarmente viva in quanto l’ispirazione artistica attinge la sua energia direttamente dalla trascendenza e dall’eterno ma fa costantemente i conti con la debolezza insita nella componente umana, fragile e precaria. Ce lo raccontano la poesia iniziale che cita l’episodio veterotestamentario del peccato originale (p.12) e anche le successive che di volta in volta descrivono la fatica e lo smarrimento di perdurare / nei labirinti dell’impermanenza (p.13) o il pensiero della precarietà dell’esistenza inesorabilmente erosa dallo scorrere del tempo con il suo effetto abrasivo (“quanto tempo perduto, quanto amore / dissolto, quanti sogni disperati, p.18) o nella continua reminiscenza della scintilla divina che nel fondo del nostro essere non si è mai persa (inesausta mi pulsa nelle vene / la linfa del divino, p.19) e che tuttavia viene travolta dell’inesorabilità del divenire. L’azione del tempo è raccontata con precisione in due poesie gemelle e contigue Krónos Acháristos (“Nessun rinvio, né arresto / concede, indifferente / a suppliche più tenere. / Il tutto anela al niente. / Conosceremo presto / la grazia della cenere.”, p.21) e Krónos – Kairós (“Kronós ci sta mummificando. Plasma / con il suo artiglio insonne già la nostra / maschera funeraria. Ma il fantasma / allegro di Kairós furtivo mostra / vie di fuga ammiccando alle sue spalle. / Con lui risaliremo dalla valle.”, p.22). Nella sezione successiva Il poema dell’attesa la prospettiva della precarietà viene rovesciata, il punto di vista diviene immanente, assume una dimensione temporale, attuale e diffusa, potremmo dire che da universale si faccia individuale o comunque generale (cioè come somma di individualità). In questa ottica la consapevolezza della finitudine dell’esistenza si converte proprio nell’attesa di un (o del) possibile evento da desiderare, da negare, da rifuggire. Questo attendere ha poi le caratteristiche impalpabili dell’oggetto dell’attesa, che sia la chiamata dell’angelo (“so che comunque sarà una sorpresa e Anima e cuore si ricomporranno / alla chiamata, e svanirà ogni affanno”, p.28) oppure un evento reale o simbolico (“Un ritorno impossibile, un commiato, / il ritardo ad un primo appuntamento, / la vittoria finale di partita”, p.30) o ancora una rivelazione, una teofania oppure che si esaurisca semplicemente in una falsa aspettativa (“l’attesa non ha fine con l’evento / poiché evento non c’è fuorché l’attesa, / è una vicissitudine sospesa / una farsa, un risibile tormento. / Ti accorgi a un tratto irrevocabilmente / che da attendere no, non c’era niente”, p.47). Se le prime due sezioni ci raccontano delle stimmate della sofferenza imposte all’Uomo e al Poeta, dello strappo con il divino e poi dell’attesa che diventa abbandono o resistenza allo scorrere del tempo, la terza sezione Araldi della Luce ci immette in un’atmosfera dai contorni sfumati, quasi onirici e fiabeschi, in cui si tenta il recupero dell’innocenza fanciullesca attraverso il confronto con figure sublimate, ancora inconsapevoli del vortice esistenziale, emblemi della luce della purezza primigenia ma spesso sul punto di varcare la soglia. Così ad esempio avviene nella poesia Ianuarius, in cui è ben reso il concetto di soglia, con quel riferimento già nel titolo a Ianus (Giano, il dio bifronte): “Quanti ragazzi accompagnai al cancello / di un giardino d’infanzia abbandonato / sapendo che l’avrebbero varcato / illusi di un cimento ardito e bello. ∕∕ Quanti volti scomparsi nella bruma, / profili delicati in filigrana”, p.52. Oppure, nei fanciulli sfuggenti di Shining (p.54), con Fanciullo in treno (p.55) e Double jeux (p.56) o nell’angelico viso di The camaleont boy, (p.64). E si può così proseguire parlando del fatuo fantasma della poesia Il gatto del Cheshire che “sa soltanto in voluttuose spire / ricomporsi e nel fumo blu svanire (p.66) o del miraggio di un riflesso / uno specchio incrinato, un freddo fuoco nella poesia Cold fire”, (p.67). Ormai il disincanto ha trasformato queste figure in un gioco di idealizzazioni, forse ironico ma anche malinconico. Quindi, con il movimento ondivago e suadente dei versi nello srotolarsi della varie sezioni ci si inoltra In scrivere il desiderio in cui si parla della scrittura stessa, capace di creare un mondo sospeso, un rifugio o un esilio dorato dopo la stagione della disillusione. Questa sezione è composta da dieci poesie di quattro versi ciascuna, disposte come a costituire un unico discorso in quartine, rapide ed incisive, con cui abbandonare i sogni e le fantastiche chimere (p.72) per arrivare all’esigenza di “imprigionare il sogno / scrivere il desiderio” (p.81). La direzione del movimento di la Ferita celeste è quindi già impressa e segnata verso il suo epilogo: dopo il disincanto e il disinganno, si arriva infatti a esaminare la soluzione del conseguente distacco, della presa di distanza della sezione La sirena di Delvaux che esordisce con il Quartetto dello sguardo (pp.86-87): una serie di quartine che culminano con la citazione del quadro di Delvaux e con l’identificazione del poeta in una delle sirene rappresentate, che freddamente si erge nel reale quasi sfinge o enigma, un universo isolato nel mondo (“Chi sono più non so / l’Estasi mi incatena / Immobile sirena/nel quadro di Delvaux”). Non è un caso che nelle poesie successive leggiamo di un apprendistato del distacco (p.89) e dell’avanzare graduale dell’oblio (così in Evanescenze, p.90 e in Dead Memories, p.91). La traiettoria prosegue e si chiude infine nell’ultima serie di poesie di La prospettiva aliena, in cui lo sguardo del poeta sirenide (come si definisce lo stesso Raffo) si è ormai staccato e si erge da una dimensione nuova (“Noi Sirenidi non guardiamo il mondo / da umani. È astratta scena / l’altrui vita, un assurdo girotondo”, p.97 e Da un buco nero ti contemplo, o Terra, p.101) verso il superamento del tempo (“ciò che occorre è addestrarci a superare / le barriere del tempo”, p.104) e dell’ulteriore metamorfosi di Identikit (p.105) sino al congedo finale dell’omonima poesia dove leggiamo: “Mi scorri come sabbia fra le dita / né mi sembra d’amarti mai abbastanza / mia fragrante maliosa ardente vita e poi alla fine si chiuderà sull’anima smarrita / la botola che copre ogni distanza” (p.106). E si chiude così anche il libro, questo viaggio che, accompagnando il lettore in una zona sospesa fra la realtà e il sogno, lo sguardo e la visione, lo conduce al duro epilogo del risveglio dopo l’ipnotico oblio di un canto di Sirena.

Alessio Vailati

Literary.it

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