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LA STELLA VARIABILE DI VITTORIO SERENI

LA STELLA VARIABILE DI VITTORIO SERENI

L’ultimo libro di poesia di Vittorio Sereni è uscito nel 1981, si intitolava Stella variabile. Dopo neppure due anni, l’autore è scomparso, avendo scritto poche altre cose in versi, recuperate nel volume dell’intera sua produzione poetica, Poesie (Mondadori). Stella variabile apparve dopo quindici anni dalla precedente raccolta, Gli strumenti umani del 1965, quarto libro di versi, con Diario d’Algeria (1944) e Frontiera (1941), in cinquant’anni e più di lavoro poetico. Sereni non è un poeta prolifico: un senso dei reali limiti della poesia lo ha sempre tenuto in disparte, riservato e discreto, lontano da qualsiasi forma di militanza e di impegno e da qualsiasi clamore. Restio a cavalcare la pretesa “funzione” del poeta o ad assumerne comunque la parte, ha sempre scritto in un rapporto di necessità inderogabile rispetto alla vita. Il che vuol dire che ha composto solamente i pochi testi che non gli era possibile non comporre. Ed è la considerazione fondamentale per penetrare la sua poesia. È proprio in questo genere di poeti, contenuti fino allo stremo, che si sciolgono i nodi insolubili e si scoprono le svolte risolutive. Non ce ne sono mai più di due o tre per secolo. Uno di quelli del nostro Novecento è sicuramente Sereni. Quello che, senza pretendere di dare nessuna indicazione, ha mostrato (specie poi alle giovani generazioni) come si potesse e dovesse scrivere poesia, senza abdicare a se stessi e senza cadere nel ridicolo di una investitura (di vate o di iconoclasta). Lontano dagli eccessi dell’ermetismo e dell’avanguardia, e lontano dalle semplificazioni e dalla cattiva coscienza del neorealismo: ecco la posizione netta e decisiva di Vittorio Sereni. E, in lui, già nel 1941 si affaccia l’esigenza di una maggiore adesione alla realtà quotidiana, da narrare quasi in toni diaristici. Come di lì a poco accadrà in modo più radicale nel Diario d’Algeria, dove la cronaca della prigionia tende a porsi come allegoria esistenziale, e come poi si riproporrà, attraverso il lavoro di molti anni, nella raccolta Gli strumenti umani, dove le vicende private appaiono costantemente proiettate sullo sfondo delle grandi trasformazioni culturali e sociali dell’Europa. La critica non ha reso ancora giustizia completa alla poesia di Vittorio Sereni. Non nel senso che siano mancati i consensi. Ma il consenso, spesso, cancella o rende incerto il riconoscimento del giusto. Ed è accaduto in fondo che Sereni, nelle classificazioni di comodo, sia rimasto consegnato a una parte perfino ufficiale di poeta “civile”. Cioè, in qualche modo, si è esorcizzato il vincolo della sua fedeltà assoluta “al tempo e alle circostanze vissute”, facendo di un criterio di conoscenza l’oggetto della poesia. Con tutti i malintesi che si possono immaginare. Così pure è accaduto che si sia visto in Sereni, per altra via, il portavoce di una sconfitta radicale, per quanto attenuata all’apparenza da una veste elegante e sottile. Uno strano cliché, a ben guardare, quello che pretende di coniugare gli uffici “civili” con i dati della “delusa partecipazione”. Sono termini  questi che vanno accantonati in una valutazione calzante della poesia di Sereni, perché le circostanze in campo sono altre. A partire dal fatto più importante, e più frainteso o ignorato: la speranza come motore della poesia di Vittorio Sereni. La speranza, si sa, sopravvive anche in area laica e in particolare, là dove tace l’apologia del progresso, si configura in forme oblique e filamentose che vanno ben più in profondità dei salti di fede. Non come leopardiana immaginazione di “quello che poteva esser stato”, nel caso di Sereni. Ma come adesione a una realtà in essere, riflessa nel mentre è vissuta e in questo riflettere adeguata mentalmente a tutte le ipotesi: il “progetto sempre in divenire sempre in fieri di cui essere parte”. È una speranza insomma, per così dire, dell’immanenza quella che attraversa la poesia di Vittorio Sereni. Senza sublimazioni e senza trasfigurazioni, ma anche senza veri cedimenti alle presunte ossessioni della “fine dell’estate”, del “prossimo inverno”, dell’ “imminente silenzio”, che alcuni hanno ritenuto di individuare. La radiografia trasversale della “vita fluttuante e mutevole” si esprime in forme oblique, ma non elegiache, come spesso è stato ripetuto. Non c’è malinconia, come non c’è crepuscolarismo, in Sereni, e la situazione è ferma, perfino spigolosa. Il discorso, nella sua linearità, è continuamente slittante di grado, in un aggiustamento successivo, e l’abbassamento di tono risponde alla legge dell’inversamente proporzionale.

Paolo Ruffilli

Il Resto del Carlino

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