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NECESSITÀ E GRAZIA DI PAOLA PAROLIN di Andrea Afribo

NECESSITÀ E GRAZIA DI PAOLA PAROLIN di Andrea Afribo

Per quanto l’autrice si ostini (con me) a negare che la sua sia una poesia difficile, le poesie e le prose di Necessità e grazia (Arcipelago Itaca) di Paola Parolin sono difficili. Non oscure, ma difficili sì, o meglio: enigmatiche e difficili insieme. Certo non siamo né in ‘zona Zanzotto’, né in ‘zona Celan’, e nemmeno a ‘quota Anterem’ (per stare più vicini e scherzare un po’). Il lettore però si troverà di fronte a testi in cui vige quanto basta, quanto è necessario, la regola dell’ellissi, del laconico o dell’implicito. Voglio dire che dei vari soggetti di cui si parla – perché Paola Parolin parla più degli altri che di sé, o magari di sé ma sempre attraverso gli altri – ci viene detto poco o niente. Chi è ad esempio «l’uomo solo» della prima poesia? e di chi è la «vita in penombra» (bellissima immagine!) di memento? Non sempre è immediato e pacifico riconoscere i confini delle frasi e dei sintagmi e dunque le tappe logiche e la coerenza del discorso. E qui ci mette del suo l’assenza pressoché totale di punti e di virgole, ma non è solo per questo. Faccio un esempio e prendo l’inizio della prosa eterno ritorno, che fa così: «uno sull’altro scompigliati pensieri scardinati disegni un paletto caduto ha dato la stura trascina nel fango candida veste e loro a guardare senza vedere piccole dita erose a sangue loro non erano loro a convivere» eccetera eccetera. La sostanza complessiva delle immagini (il sangue, il contrasto tra il candore della veste e il fango) non può che metterci davanti agli occhi qualcosa che in sintesi si chiama trauma o disagio più o meno profondo. Sentiamo ovviamente che qualcosa di irreparabile è successo a partire da quel «paletto caduto». Ma se di questa sequenza dovessi rendere conto più da vicino e con più precisione ecco che le cose un po’ si complicano. Metto una virgola dopo «uno sull’altro»? o dopo «pensieri»? Oppure mi chiedo: «uno sull’altro» si riferisce a due persone non identificate (o ai «loro» successivi ma altrettanto ignoti) i cui «pensieri» sono «scompigliati» e i «disegni» «scardinati»?, oppure sono gli stessi «pensieri» e i «disegni» ad essere l’«uno sull’altro»? E ovviamente: cosa ci fa, da dove viene, quel «paletto caduto», così concreto e contingente, in mezzo all’astratto di «disegni» e «pensieri»?  Dunque sì, per me le poesie e le prose di questo libro sono testi difficili, impegnativi, introversi. Ma voglio dire a Paola che il difficile non è una colpa, anzi! E abbozzandone un’apologia potrei intanto dire un’ovvietà, e cioè che il difficile è parte integrante di tutta o quasi la lirica moderna (dove c’è sforzo c’è poesia diceva Mallarmé), la quale ha nel suo statuto mete più alte della immediata condivisione di un messaggio. E poi voglio dire anche uno) che il difficile è il segno e la metafora della difficoltà delle relazioni umane e dell’inscrutabile proprio di qualsiasi linguaggio non convenzionale; due) che è direttamente proporzionale all’intensità e alla spiritualità delle «domande di grandiosa distanza» che questo libro si pone e ci pone; e tre) che è la continuazione con altri mezzi del mistero e di ciò che sta nel mirabile profondo delle vite e delle anime di questo libro e di ognuno di noi. E quindi al lettore di Necessità e grazia potrei infine dirgli: nei libri difficili tu non capisci tutto, ma quando sono veri sei sicuro che loro capiscono te, che le loro parole, i loro pensieri, le loro storie ti riguardano. Ma che storia o che storie ci racconta Necessità e grazia? Usando due aggettivi emblematici del libro (avviso che tutto quanto è tra virgolette in questa prefazione viene da Necessità e grazia) possiamo dire che sono storie «epiche e feriali», cioè epiche proprio perché feriali, perché raccontano la quotidiana lotta o via crucis «per continuare a esserci», per trovare un senso in «giorni e giorni consunti di niente». Sono storie di finitudine, soprattutto storie di malattia, storie di chi «sta per morire» (anamnesi), storie che raccontano e meditano sulla «fatica degli uomini» (Adige), sui loro giorni duri come «chiodi sul muro», sul «peso del mondo» – di quello vicino, prossimo a Paola e a noi, ma anche lontano e lontanissimo, come quello dei «dannati» delle miniere d’argento di Potosi, in Bolivia, «mani e piedi nudi nelle viscere del monte», nella epica intensa e tesissima argento a Potosi. (Ho parlato di ‘storie’, e confermo. Ma sono storie sempre ruminate interiormente, esistenziali, concettuali e spirituali insieme. E per quanto le loro occasioni-spinta siano concrete, sono storie che salgono subito verso le regioni del pensiero e dell’astratto, della meditazione). Non so se saprei riannodare tutti i fili di Necessità e grazia che non è una semplice raccolta ma proprio un libro organico, un prosimetro di trenta testi asciutti e quasi ascetici – le prose non sforano mai le quattro righe, le poesie hanno versi brevi o brevissimi, le parole sono contate, non una di più!: c’è più silenzio che chiacchiera in questo libro. E non saprei capire, per le ragioni di cui sopra (cioè ellitticità, dizione introversa e così via) perché proprio quel testo lì è il primo, quell’altro il secondo o il terzo oppure il ventunesimo. So però che in fondo non voglio, e che il libro e la sua autrice non me lo chiedono. Però sono sicuro che la figura primaria di questo libro è il contrasto e/o la contraddizione. Lo dicono certi titoli come dissociazione e persino contrasti oppure di contro. Lo dicono certe coppie di antiteti come «dannati o redenti» e lo dice soprattutto e prima di tutto il titolo di questo libro, con la sua e che insieme divarica e unisce i poli opposti della necessità e della grazia. «Coniugare necessità e grazia»: così finisce il testo numero quattro, Sars-Cov 2. Nel realismo tutto vero e intenso di una scrittura fatta di «parole impresse su carne e non su carta» e di parole come «dure pietre miliari e di inciampo», va da sé che la necessità pesa di più della grazia. Gravano sulle pagine di questo libro le immagini di un «cuore torto da ferita», di un «corpo ferito» e di tutti i «corpi feriti avviliti invecchiati». È diffusa e molecolare la semantica della perdita o dell’appassimento doloroso, che Paola declina in espressioni tanto semplici quanto liricamente struggenti come queste: «troppo perduto, «consunti di niente», «spalle dolorose». E poi ancora, in rapida successione: la disarmonia vince lasciando a zero il suo contrario («insolenti immagini di armonia negata»; «il disegno disarmonico dei marciapiedi» e così via), la vita è un «guscio frantumato», la primavera non può che essere «fugace» e subito «colare» e dissiparsi come «polvere fra le dita»; non c’è passo avanti senza uno indietro – «progredì andò a ritroso» – come si legge nell’ultimo e teoricamente risolutivo redde rationem. Eppure. Ma. Però. Però esiste anche il miracolo della contraddizione, il paradosso per cui è proprio nella necessità che abita la grazia, come la «pianta» «nasce dalla devastazione» o una «margherita» da «un suolo non erbato» – e sto citando il Montale degli Ossi di seppia. L’inscindibilità faticosa e dolente ma vera o possibile di necessità e grazia: questo è, credo, il (o un) tema profondo del libro di Paola Parolin. E ci sono in questo senso testi più esemplari di altri e mi sembra giusto che uno di questi sia proprio quello che apre Necessità e grazia, il testo alfa, che s’intitola non a caso per le antiche scale. Leggendolo e rileggendo io lo interpreto come segue. Da una parte riconosco il polo inaggirabile della necessità. La riconosco già nella soglia del testo, perché le scale – quelle del titolo – sanno sempre un po’ di sale, e anche perché il titolo intero riprende quello di una raccolta di racconti di Mario Tobino ambientati in un ospedale, quello psichiatrico di Lucca. E entrando nel testo, la riconosco, la necessità, nella sofferenza di «un uomo solo», nella sua paura (che è «vera») e nella «luce asettica» dell’ospedale. E poi all’esterno, quando si reifica in un paesaggio petroso da male di vivere, cioè nei «sassi di un terrapieno», in un «muro» – un muro che raddoppia la clausura coatta e il senso del limite. E qui ecco le tipiche erbacce da luogo abbandonato da desolato-sconnesso, cioè i «cespugli selvatici» nati «per dispetto» e così prossimi per un comune destino di souffrance alle «contorte radici di alberi imprigionate nell’asfalto» che troviamo qualche pagina dopo. Ma ecco, di nuovo, il paradosso, la contraddizione e l’interstizio della grazia. Quei «cespugli» infatti (resilienti come la ginestra di Leopardi?) possono anche essere pensati – io li vedo così ma anche Paola li vede così – come un «verde acquario» («cespugli selvatici […] / verde acquario / suggestioni di natura») nel secco, arido e duro habitat dell’esistenza, e possono pertanto «ammorbidire la luce asettica» di un luogo estremo come l’ospedale. Questo risvolto del végétal irrégulier nella prima parte della poesia anticipa e prepara l’epifania della scena finale: dove a quell’«uomo solo», con tutta la sua «paura», «gli pare di riconoscere un chi ro / in qualche graffio del muro». E se la «chi» e la «ro» sono le due lettere greche che significano Cristo, allora è come dire, cripticamente ma non troppo, che la grazia cresce e si fa spazio nella necessità di quel «graffio nel muro». Allora penso che ciò che ci vuole dire Paola Parolin in questa poesia, e in tutta una parte importante del suo bellissimo libro, non sia così lontano dall’Hölderlin di Patmos, e da questi suoi versi: «È vicino. / È difficile da comprendere il Dio. / Ma dove è il pericolo, cresce / Anche ciò che dà salvezza».

Andrea Afribo

Prefazione

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