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SONIA GIOVANNETTI LEGGE “LE COSE DEL MONDO” DI PAOLO RUFFILLI

SONIA GIOVANNETTI LEGGE “LE COSE DEL MONDO” DI PAOLO RUFFILLI

Singolarissima e densa opera poetica, “Le cose del mondo” di Paolo Ruffilli (Mondadori), che si fa apprezzare per la varietà e originalità dei temi e per lo stile del suo poetare, leggero e profondo a un tempo, distaccato nei toni e parco nel lessico. Uno stile del tutto alieno da enfatici lirismi, e tuttavia capace di emozionare intensamente, sia per la drammaticità, a tratti angosciante, dei contenuti, sia, all’opposto, per la graffiante ironia descrittiva sottesa al gustoso inventario degli oggetti d’uso quotidiano – “Le cose del mondo” – così come dei particolari anatomici del corpo umano. C’è però anche, a dare il tono prevalente dell’opera, un marcato sottofondo filosofico che dà ragione a quanti, tra i critici, annoverano Ruffilli tra i poeti cosiddetti “mentalisti”, essendo indubitabilmente la sua una convincente testimonianza di “poesia pensante”, mossa dall’affettività di un pensiero che, se insieme “piange e ride”, soprattutto provoca e fa meditare. La tessitura dell’opera è in gran parte assimilabile ad un diario esistenziale, una sorta di “biografia senza fatti” che sembra evocare, nell’intonazione intimistica e meditativa, “Il libro dell’inquietudine” di Pessoa, il cui protagonista, Bernardo Soares, esplora tenacemente e in profondità, come pure Ruffilli, i moti della propria coscienza, senza mai sottrarsi al senso di sconfortante afflizione prodotta in lui dallo spettacolo della vita e dalla propria esperienza del mondo.

VELLEITÀ DELLA RAGIONE

Le riflessioni che il poeta ricava dalla sua incalzante e quasi chirurgica indagine introspettiva ne rivelano l’oggettiva filiazione dal cosiddetto “pensiero della crisi”, dominante nella cultura europea del Novecento, che prende polemicamente di mira l’assolutismo della ragione e che annovera tra i propri antesignani pensatori quali Nietzsche e Heidegger, per poi ramificarsi, sempre più decostruendo l’edificio metafisico e positivistico, in diversi indirizzi filosofici e letterari, tuttora operanti. Sorride infatti quasi beffardo il poeta quando, sin dall’inizio del primo capitolo del libro, “Nell’atto di partire”, scrive “All’imprevisto che è legato al moto,/ la ragione ha imposto antidoto/ di linee rette: orari, termini, binari./ Contro i rischi dell’ignoto” (p.13), indicando proprio nell’ignoto, ( o, come dirà altrove, nel “mistero”, suo sinonimo), così come nel movimento, i tratti distintivi, ancorché problematici, dell’esperienza della vita. Non ignora dunque Ruffilli la genealogia della ragione, nata nella Grecia classica e perfezionata da Platone a protezione degli uomini dai rischi e dalle calamità che li affliggono,  minacciandone la vita; e tuttavia quella ragione, creata per dare ordine al caos e fondata sui principi di identità e di non contraddizione, non è più ormai, per il pensiero moderno, il garante assoluto della verità; essa svolge sì un ruolo utile per la vita pratica e per la convivenza, ma in sé è del tutto illusoria: “Ecco che la mente fa ricorso all’ordine/ per ricondurre al dato universale/ ogni dettaglio e singolo particolare/ nello sforzo istintivo di riorganizzare/  negli insiemi dell’idea categoriale/ il vasto ibrido mare più indifferenziato/ dentro il plurale, di zero e singolare” (p.185). Ma questo sforzo è vano: “la logica concettuale serve a poco/ o a niente per spiegare/…/il paradosso ambivalente…” (p. 184). La ragione, con le sue pretese totalizzanti, non coglie la realtà dell’esistenza, che ha altrove il suo fondamento: “E’ il movimento a darci in dote la speranza/ mettendo in relazione noi stessi con le cose” (p.14).

LA VITA È MOVIMENTO

La realtà perciò è movimento, contraddizione: è “polemos”: “Sogna la ragione una coerenza del reale…(mentre) ogni verità, per sua vera distrazione…è invece la contraddizione dentro l’unità” (p.98). Ruffilli sembra qui esprimersi con la voce di Eraclito – alias, per i Greci, “l’oscuro” – che fa dell’unità degli opposti la radice di ogni verità. Si può dunque ben riconoscere in Ruffilli un poeta-filosofo, che fa della poesia una chiave di intima comprensione, anziché di lirica rappresentazione, del mondo e della vita. Anche le metafore presenti nei versi appaiono piegarsi ad un intento teoretico. Quella del viaggio, ad esempio, impegna tutto il primo capitolo, dove si scopre (legge) “che bisogna intanto perdersi/per potersi davvero ritrovare” (p.16). È questa la “scoperta più paradossale” dice il poeta, non senza una certa oggettiva ironia, poiché egli certo non ignora che tale sua “scoperta”, l’estraniarsi da sé per poi ritrovarsi, ricorda una celebre, maestosa costruzione filosofica dal sapore spiccatamente hegeliano. La “Fenomenologia dello spirito” del grande filosofo tedesco è infatti anch’essa propriamente un viaggio nella “esperienza della coscienza”, come recita il primo titolo dell’opera; un viaggio dal quale, com’è noto, lo “Spirito soggettivo” intraprende un percorso di autoevoluzione per tornare più consapevole a se stesso, arricchito dalle conoscenze acquisite nel corso del suo andare. Ma la consonanza del pensiero di Ruffilli con questa idealistica concezione del mondo si rivela, invero, solo apparente.  Ecco infatti  farsi strada ben presto nei suoi versi, tra le immagini del viaggio e del movimento – fin qui le più vicine a significare il senso della vita  – un’ ombra di scetticismo che, contraddicendola, ribalta la tesi poc’anzi adombrata, per segnare a lungo, come traccia profonda, la sua visione poetica: “Se si potessero tra loro sommare/ una sull’altra tutte le rotte/…si vedrebbe/ che non si avanza di una spanna,/ che più si va e meno si trova/ e non si arriva da nessuna parte” (p.24). E ancora: “Partito senza mete, solo per partire/ di fronte all’infinito…sicuro intanto/ che il mio incerto andare proprio/ nel suo andando e fino al suo finire/ non dovrà arrivare da nessuna parte” (p.39).  Il movimento, l’andare, è in realtà solo un’illusione, un falso movimento, un continuo e vano fuggire dagli “interessi, rapporti, amori, affetti”, poiché “l’azione…è rimasta presa…nell’appiglio/ mobile dei suoi stessi uncini (p.90). Sicché, quell’apparentemente positivo “ritrovarsi” conseguente al “perdersi” finisce per rivelarsi del tutto inconsistente. La vera condizione della vita è così, in realtà, la sua totale mancanza di senso. Impossibile non avvertire, nei versi citati come in tutta la sua opera, il respiro della grande letteratura e della filosofia novecentesche, che nascono entrambe in un panorama epocale deprivato di ogni consolatoria speranza ultramondana. La “morte di Dio”, celebrata dalla filosofia sul finire dell’800, si dispiega nel secolo successivo come nichilistico pregiudizio al significato tanto dell’esistere quanto dell’agire, che sarà il cuore tematico delle filosofie esistenzialistiche. Emblematica, nella letteratura di quel periodo, è la parabola teatrale, ironicamente dolente, immortalata da Samuel Beckett che, nei personaggi di “Aspettando Godot”, così come in altre sue opere, rappresenta impietosamente l’insensatezza della vita umana e il fallimento di ogni tentativo di movimento da parte dell’uomo. Tuttavia, a proposito del movimento, in Ruffilli vive una feconda ambiguità, già rilevatasi nelle poesie del primo capitolo del libro. Se infatti, per un verso, col partire “non si arriva da nessuna parte”, è pur vero tuttavia che “il puro movimento (è) simbolo e certezza/ di un cambiamento ovunque vada/ o torni indietro” (p.38). Inoltre: “Io, partito debole e incerto sui bersagli/ senza vera meta e senza una ragione/…(sono) diventato con sorpresa (strana, mi dico,/ la mia sorte) via via più forte per la vita/ avanzando e avvicinandomi alla morte” (p.102). La convinzione che la vita sia res nullius non esaurisce dunque tutto l’orizzonte della visione poetica di Ruffilli. Anzi, il movimento della vita sembra rappresentare a volte un riscatto dalla sua stessa insensatezza, altre volte una fuga salvifica dall’ “imperfezione imperdonabile del mondo” (p.30), come dalle tante “cose mai risolte” (p.33). La fuga dalla vita è, in fin dei conti, anch’essa vita, è una ribellione allo stato delle cose, che fa pensare a quella dell’ “Uomo in rivolta” di Albert Camus – una rivolta dell’arte contro l’assurdo della realtà e per l’affermazione di valori umani autentici.  L’unico senso della vita è dunque la vita stessa, nonostante tutto! “Ed ecco che di colpo il vento della vita/ soffia infilandosi da vagabondo/ in giro dappertutto per il mondo” (p.179).

L’ARIDO VERO

Nella prospettiva fin qui delineata, l’insensatezza della vita e, insieme, la solitudine dell’uomo sembrano in parte evocare l’immagine dell’ “arido vero” di leopardiana memoria. La verità urticante, drammatica, che incombe sul destino umano, è espressa dal poeta con versi essenziali, di apparente distacco e sobrietà espressiva, che tuttavia, lungi dall’attenuarne l’impatto emotivo, colpiscono in modo lancinante il lettore.  “La coscienza, a un tratto, o il dubbio,/ la domanda più vertiginosa/di quelli che lottano ogni giorno/ per darsi di continuo l’illusione/tentando in tutti i modi di farsi/ sopravvivere la convinzione/….che la vita valga la pena/ comunque di essere vissuta” (p.35). Se a questa “domanda” si associa poi quel “cupo conto dei morti che/ la vita ci riserva indifferente” (p. 32), non si può non pensare al Leopardi che della vita vede il vanificarsi di ogni illusione di felicità e di senso al cospetto della morte, destino tragico e inevitabile dell’uomo. “…La felicità/ invece sempre si confonde/ con la dissolvenza stessa/ la dissomiglianza di ogni cosa” (p.95).   E tuttavia, così come in Leopardi, anche nel poeta Ruffilli si avverte il convincimento che l’unico possibile riscatto dal nulla che incombe sulla vita è quell’illusione di senso che solo la poesia può concedere (come si vedrà in “Lingua di fuoco”), quando questa sappia confrontarsi con la verità del mondo e dell’esistenza, autenticamente e senza infingimenti. Un tratto che avvicina i due poeti è anche la comune cognizione di una caratteristica peculiare della natura umana: “Ha la natura umana una tendenza:/ l’irresistibile bisogno di levarsi/ puntando in alto e distaccandosi/ dal suolo/…/ parte nobile della sua essenza stessa” (p.82).   Una tendenza a sollevare lo sguardo oltre il visibile condivisa da Leopardi e da questi mirabilmente descritta ne “L’Infinito”, quando, seduto innanzi a una siepe “che da tanta parte/ dell’ultimo orizzonte il guardo esclude/ (…) interminati/ spazi di là da quella e sovrumani/ silenzi e profondissima quiete/ io nel pensier mi fingo…”. Nel pensiero della realtà c’è sempre un “oltre” che cattura la mente dell’uomo, un territorio nascosto, intuito ma sfuggente, indefinibile, che richiama un infinito esplorare. È proprio quel “mistero” di cui parlano sovente i versi di Ruffilli. Ma se dall’insensatezza della vita nasce in Leopardi un positivo sentimento di laica solidarietà tra gli uomini accomunati da un uguale, inesorabile destino, nella poesia di Ruffilli, quando essa assume i toni della poesia civile aprendosi alla considerazione dell’altro,  affiorano posizioni più severe verso il genere umano,  vuoi di pacata riprovazione per chi, stoltamente, ignora di essere un prodotto della storia e della società: “L’illusione di essere sfiorati appena/…(e )…arresi con tranquillità/ nella trafila di secoli e di morti della storia,/ nei meandri profani della vita ormai passata/ degli antichi, dei greci o dei romani” (p.27), vuoi di vibrante ripulsa per “la violenza che gonfia e scoppia fuori/ saltata via la crosta, la potenza mortale/ di aguzzini e stupratori in versione/ pressoché normale…” (p.96).

LINGUA DI FUOCO (LA VITA È MISTERO)

Sorprendono non poco, come un repentino tocco di genio, le poesie che concludono l’ultimo capitolo del libro, “Lingua di fuoco”, rivelatrici del senso più autentico che Ruffilli assegna alla vita. “Solo tra le braccia della vita che rinasce/ si spegne la sete di risposta al buio del mistero/ consegnati da se stessi al dolore e al desiderio/ di un vuoto mai riempito per intero” (p. 188). Quel “vuoto” è il mistero della vita, il suo “valore indefinito”, imperscrutabile all’uomo che lo fronteggia e che dunque lo pensa come non-senso. Impari di fronte al mistero, all’uomo non resta altra scelta che affidarsi a quell’ “energia vitale” (ibidem) che governa il ciclo della nascita e della morte. Ecco la ragion d’essere di un vitalismo affiorante in più punti dell’opera, che ha nel trascendente, chiave invisibile ed enigmatica di tutto ciò che esiste, il suo fondamento e, insieme, il suo limite. Un trascendente non però ultramondano, né tantomeno teologico, bensì appartenente a questo mondo, dato che il valore della vita si incarna nella vita stessa, che non ha un senso che la preceda, non ha un fondamento fuori di sé. Essa, inoltre, non coincide mai con se stessa; vive solo, come pensa l’esistenzialismo, nelle sue infinite possibilità: è “totale alterità”, “vera vita assente”. “L’ultima stanza è quella, sì,/ del vuoto e del silenzio, del tutto/ che è conficcato dentro al niente/ e dell’incontro trascendente/ con la totale alterità, la vera vita/ assente” ( p. 186). Immagini suggestive, prima tra tutte quella del silenzio, la voce inascoltata “che grida non parlando nel deserto/ e dando nome a ciò che è assente” evoca la “solidità del niente” (p.187). Pagine di estasi metafisica, queste ultime, ma di una metafisica “concreta”, mondana; e di meravigliosa fusione di poesia e filosofia. Tutto ciò che esiste ha di fronte a sé il non esistente, sua “totale alterità”, che del primo traccia i confini e a cui conferisce forma. È il nulla, perciò, quel “vuoto”, che consente all’essere di…essere! Ma infine è la poesia, voce che scaturisce dal silenzio e del silenzio si nutre, a dare “il nome a ciò che è assente” (p.187), a dare il nome alle cose, traendole dal nulla e portandole a esistere: come da sempre sanno i poeti (Holderlin, Georg), come sanno certi filosofi (Heidegger, Zambrano).

LE PAROLE E LE COSE

“Lingua di fuoco” è anche un poetico, commovente omaggio alla parola. Pur sempre controllato, qui tuttavia il sentimento del poeta si fa a tratti vibrante, fino a scuotere l’abituale pacatezza del suo linguaggio. In questo emozionante capitolo, l’ultimo della raccolta, Ruffilli sembra far propria la celebre, perentoria asserzione di Stefan Georg “Nessuna cosa è dove la parola manca”, che designa il linguaggio – le parole – come l’orizzonte entro cui, heideggerianamente, le cose vengono all’essere e acquistano significato per ogni comunità umana. “Emerge dal fondo, esonda la parola/ lingua di fuoco a rompere il silenzio/ e pronunciare netto al mondo/ ciò che aspetta ancora nell’assenza” (p. 173).  E ancora: “Ecco che di colpo riesco a dare/ corpo all’ombra, si stacca la parola/ dal groviglio e dà forma al fantasma/ figlio del sogno che si sveglia/ e respira il respiro della vita” (p.174). Se dell’esistenza è impossibile cogliere il significato, non avendo altro fondamento oltre se stessa, è allora la parola – e innanzitutto la parola della poesia – a “fare mondo”, a riscattare il nulla della vita nominando, e così creando, le cose. “Ha filamenti lunghi la parola/…../ che ha dato soffio e corpo musicale/ alle cose ancora sconosciute/ richiamandole come fuori da se stesse…” (p.176). Le parole hanno inoltre un potere veritativo, quando “sciolte via dal laccio/ che le lega nel più profondo strette/ assetate sempre di libertà e di arbitrio/…emergono in un soffio/ a rivelare /…/ il senso di ogni cosa, e a pronunciare in pieno nella sonorità/ la loro visionaria immaginosa verità” (p.182). Affrancate dalla sintassi, ribelli ai vincoli formali del logos, le parole fanno sì che “l’enigma si disvela nel linguaggio…(e)…il vento della vita/ soffia infilandosi da vagabondo/ in giro dappertutto per il mondo” (p. 179). Quando le parole non obbediscono più alla ragione, quando fruttificano dall’intuizione, dal pensiero emotivo, riescono allora ad aprire le porte alla verità della vita. Domina qui, come del resto in tutta l’opera, un’idea fenomenologica, precategoriale della vita, rinviando il lettore al pensiero husserliano della lebenswelt. “E per dar conto di una realtà molteplice/stratificata, ibrida, contraddittoriala logica concettuale serve a poco/ o a niente per spiegare…” (p.184). I concetti universali che servono a dare ordine al caos non colgono l’individualità unica e irripetibile di ogni essente, sostiene il poeta con rinnovati accenti antiplatonici. Tuttavia “Le parole si fanno a un tratto pallide/ sembrano vacillare sulle loro gambe/ non più ferme/…/ nel loro incerto moto/…/di colpo balenando/…/ indizi e accenni/ al grande vuoto che spinge tutt’intorno”. La parola crea sì il mondo, ma non ne esaurisce il mistero, anche se accennandovi ne dà indizio. E tuttavia, pur nella sua incompiutezza, è comunque avvertibile il potere della parola, che sempre riesce quanto meno ad evocare i confini di quel “noumeno” entro cui la realtà si nasconde allo sguardo dell’uomo. E’ un pensiero coincidente con quello che fa dire ad Ungaretti: “Le parole non sono mai a posto,…l’idea non è mai espressa veramente…la parola non riuscirà mai a dire il segreto che è in noi (ma) lo avvicina…”.  Infine, pur riconoscendone i limiti, Ruffilli riconosce tuttavia alla parola un potere ermeneutico decisivo: “Poche semplici uniche parole/ solo strettamente necessarie/…e tuttavia capaci/ di ingrandire e amplificare il senso/…fino a indurre/ la più inedita ardua comprensione.” (p. 178). Si può allora ben inserire il poeta Ruffilli, per i versi dedicati alla parola, tra i seguaci del secondo Heidegger, allorché il celebre filosofo concentra le sue riflessioni sulla poesia arrivando a sostenere, in “Holderlin e l’essenza della poesia”, “Solo dov’è linguaggio vi è mondo”; e ancora, in “Origine dell’opera d’arte”: “Il linguaggio, nominando l’ente, per la prima volta lo fa accedere alla parola e all’apparizione (…) Il linguaggio stesso è Poesia nel suo senso essenziale”.

LE COSE DEL MONDO

Ma lo sguardo fenomenologico di Ruffilli, sostenitore di un “mondo della vita” che precede, contrastandola, l’arroganza fuorviante della ragione, emerge con scintillante chiarezza nel gustoso capitolo “Le cose del mondo”, che dà il titolo all’intera opera. Si tratta di una vera e propria “metafisica degli oggetti”, la cui libertà di essere qualunque cosa, indipendentemente dall’uso che ne facciamo, è ostacolata dalla funzione che attribuiamo loro. Ma questa funzione, regolata dalla ragione, non è però la loro verità: “Ma cosa fanno le cose quando/ sfuggono di vista al controllo/ che su di loro esercitiamo? Aspettano giorni inchiodate nel silenzio/ …/ o basta che solo le pensiamo/ e di per sé succede che il pensiero/ nominandole faccia da tiranno/ ad annullare la loro libertà?” (p.137). Ecco allora presentarsi agli occhi del lettore lo spettacolo di una vera e propria ribellione, cui il poeta dà vita con brillante e divertita fantasia e nel quale ci mostra come ogni cosa è se stessa e, insieme, altro: si tratta, ancora una volta, di un saggio di “metafisica concreta”, a cui il lettore è stato già introdotto.  Della giostra metaforica di oggetti che ne hanno colpito la fantasia, il poeta fa una sorta di compendio di molti dei temi affrontati in precedenza. La sua visione esistenzialistica dell’esistenza riemerge così in “Armadio” (p.111), che da “sogno dello scrigno” diventa col tempo “regno delle tarme”, mostrando la delusione di una vita che non mantiene le sue promesse; come in “Barca” (p.114), metafora della vita “universo contingente”, “miscuglio di sogno e realtà”, eterna successione di istanti, dunque sempre sfuggente. Il tema della solitudine dell’uomo si ripropone poi in “Radio” (p.131) che, emergendo “nel cuore del silenzio (…) ridà fiato alla vita spenta, / inerte e boccheggiante o solo ripiegata”.  “Porta” (p.130) riconduce invece al tema della verità, “che si apre e si richiude sull’ignoto” e non può dunque mai considerarsi una conquista definitiva: essa è un cammino coincidente con la vita stessa, non già un teorema dimostrabile razionalmente. In “Sedia” (p.133), la verità è infatti “l’altra faccia in ombra/ della vita, la parte preminente ma ignorata”, che può farsi, al tempo stesso, “pedana, catapulta, trampolino”. Per conoscere la verità, ogni verità, occorre andare oltre il logos, come accade in “Specchio” (P.134): “E, nel gioco tra differenza e identità,/ svelato il poco di verità, nella scoperta/ che il mondo noto non è l’unica realtà” e sperare, come in “Occhiali” (P.127), che “si possa / arrivare un po’ più in là a dilatare il bordo/ opaco e ogni incompleto tratto di realtà”. La realtà è polemos, contrasto tra differenza e identità, inesauribile e inafferrabile contraddizione. Vano è perciò ogni intento sistematizzante che volesse “l’infinito ridotto a una misura (…) limato e stretto, disteso dentro/ al letto dell’enciclopedia” (“Enciclopedia”, p.120). E così come la parola non è mai pienamente la cosa che essa designa, rivelando in ciò l’abissale eccedenza del suo significato, dal poeta Ruffilli apprendiamo che anche un oggetto eccede sempre il significato che la ragione gli assegna, il quale non è mai identico alla sola sua funzione, ma è sempre anche altro.

ATLANTE ANATOMICO

Non occorrerebbero ulteriori argomenti per confermare che, con Ruffilli, siamo davvero di fronte ad un poeta filosofo.  Una poesia filosofica che si manifesta tale anche nel capitolo dell’ “Atlante anatomico”, nel quale la disamina delle parti del corpo maschile e femminile è introdotta da una dichiarazione di reciproca incommensurabilità dei due generi e della loro conseguente incomunicabilità: “non c’è parola che possa dire/ per due persone di genere diverso/ la stessa cosa al non reciproco sentire, /meno che mai se in relazione al corpo”, trattandosi di “stranieri opposti maschile e femminile”. La descrizione dei vari organi non riguarda le loro funzionalità biologiche o motorie, non ha mai un intento scientifico-classificatorio. Piuttosto, sono considerati anch’essi, allo stesso modo degli oggetti, nelle loro diverse possibilità: di perseguire scopi, di suscitare emozioni, di fornire stimoli all’ immaginario, di rappresentare insomma nei più diversi modi, singolarmente e nel loro colorito insieme, una fonte animata della vita, una sua parte integrante. Anche in relazione agli organi del corpo si mostra dunque quell’eccedenza di significati che attiene a tutte le cose del mondo, evidenziandone la trascendenza. Una trascendenza tutta terrena, che è la parte nascosta e infinita del mondo, sempre pronta tuttavia, imprevedibile e intermittente, a manifestarsi.  Una trascendenza nella vita, che ne connota l’indefinibile mistero.

MORALE DELLA FAVOLA

È il capitolo che il poeta dedica alla figlia adolescente, un delizioso racconto del loro rapporto, in cui nulla appare banale nella pedagogia che vi è elaborata. È la testimonianza di un dialogo affettivo maturo, riflessivo e amorevole, come si può desiderare da un padre ideale; ma a tratti anche dolente, specie quando il poeta accenna, non senza pudore ma nondimeno in totale sincerità, a confessare i propri timori, le proprie incertezze e debolezze, sempre evitando ipocrite posture paternalistiche, improponibili per chi, bisognoso sì di lumi ma anche refrattario all’ascolto come ogni adolescente, si affacci curioso alla vita. Fugare le paure, quelle più assillanti – della morte, dell’ignoto, della vita – appare un compito primario di questo premuroso, poetico, genitore. Sulla morte: “Capisco che ti sia venuto il dubbio,/ al punto di fuggire in cerca di un aiuto./ Come può trovarsi morta la cosa viva? “C’è che dovrò morire anch’io?”…”Quel che sento non sarà più mio?” (p.48). Sul bisogno di certezze: “Ma tu papà mi ami?/ Lo chiedi titubante assicurando a te/conferma confortante di avere/…/ di fatto la certezza di un volto sorridente/sicuro comunque nella sua incertezza…(ma)…presente nel contatto alle necessità” (P.56): ecco il conforto, insieme alla confessione di un sé senza certezze – perché immerso in un mondo senza senso – ma, in conflitto con se stesso, obbligato a darne a che ne ha bisogno. Ed ecco anche riemergere, nel rapporto padre-figlia, un raro sentimento di solidarietà, che, pur limitato qui ad un contesto parentale, colora talvolta la poesia di Ruffilli di venature leopardiane. Sulla vita: “Lo so, che ti ferisce chi non ti capisce. /però, se perdi, volgilo in conquista:/ prendi ogni ostacolo per molla e/ propulsione…”.  Nel loro insieme, le poesie dedicate alla figlia sono colme di affettuose esortazioni a prendere la vita per il verso giusto, a non farsi ingannare dai miti del denaro e del successo, a dar seguito alla fantasia, a tener sempre fede ai propri ideali, ad aprirsi all’amore e all’aria della vita. “Non aver fretta, sii paziente, aspetta/ e, proprio quando non ti importa/ più di niente, lascia che ti attraversi/ l’aria della vita. Quando ti sarai/riempita, ecco che ti sostiene/…/ Tu non lo sai, ma ti sei già salvata” (p.73). È soprattutto qui, nel ruolo di padre-consigliere, che il poeta sembra inusitatamente far mostra di sentimenti che sanno di ottimismo e di fiducia nella vita, in contrasto con la sua abituale visione del mondo e con i tratti dominanti della sua poetica. “A un tratto l’ho capito in modo inaspettato/…/che ero diventato sostegno e protezione,/ io, tuo padre, portato ormai a fare da misura/ e segno, perfino, a te di direzione…/e mi ha colpito di più perché in realtà/ non l’ho voluto, il fatto indubitato/ che non avrei creduto, di avere cancellato/ da me di colpo tutta la paura” (p.75).  Segno rivelatore che, quando l’ “altro” è qualcuno che si ama, gli “altri” non sono più quell’ “inferno” di sartriana memoria e la vita stessa, nutrita dall’amore, non ha più solo il senso di un vuoto nullificante. È l’amore dunque, insieme, come si è visto, alla parola, a dare senso alla vita? Forse, potremmo concludere, sia pure, ammaestrati da questo straordinario poeta, senza mai tuttavia dimenticare di associare il dubbio a ogni certezza che si proponga tale al nostro sguardo.  Dal momento che “Tutto ciò che è troppo esposto/ è poco interessante: l’evidente/ che ti abbaglia e ti impedisce/ di vedere la parte più importante./ Il resto, sia pur grande, conta poco o niente. Perché/ sta nel segreto e nel nascosto, /mai a vista, la molla della vita,/ la ricerca e la scoperta, la conquista” (p.71)!

Una grande lezione da un grande poeta.

Sonia Giovannetti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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