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NELLA CAMERA OSCURA DI RUFFILLI

NELLA CAMERA OSCURA DI RUFFILLI

Se ne sta rintanato lì, nell’angolo più chiaro d’un buio troppo buio perché davvero possa esserci, un angolo chiaro. Se ne sta nascosto lì, tra le rughe meno visibili d’un volto troppo vecchio perché possano esserci davvero, rughe meno visibili. Se ne sta rintanato e nascosto ma ci mette un niente a balzarti addosso, il senso ultimo dell’uomo, mentre leggi o anche solo sfogli Camera oscura di Paolo Ruffilli (Garzanti, 1992), libro che è testimonianza, presa di coscienza e cronistoria privatissima e universale al tempo stesso. Una quarantina di poesie tutte legate e interconnesse, organiche l’una all’altra, disposte secondo un gusto, per dir così, lirico-architettonico, che si fanno leggere come un unico pometto scomposto, compatto e frammentato com’è compatta e frammentata la memoria, questo misterioso meccanismo tutto umano che scompiglia l’ordine naturale del tempo e della storia. Ed è proprio lei, allora, la memoria, il punto di partenza e d’arrivo della ricerca poetica di Ruffilli, in questa tappa del suo percorso (un percorso, tra l’altro, di rara e invidiabile coerenza: sono davvero pochi, tra i contemporanei, gli autori per cui è giusto e indispensabile utilizzare il termine “opera” inteso come corpus ben connotato, di volta in volta riaggiornato, ritrattato, aperto e liquido ma sempre autocentrato e riconoscibilissimo, e Ruffilli è uno di questi): Camera oscura sin dai primi versi («la cifra data / e persa, misteriosa, / di un essere a cavallo, dentro e / fuori…»), infatti, sembra voler scandagliare i meccanismi non solo evocativi, ma proprio puntualmente produttivi, creativi e ri-creativi del ricordo. Ricordo e memoria, però, che Ruffilli non mette solo, banalmente, al centro della propria scrittura, no: col pretesto (autentico) dell’io-autore che sfoglia l’album di famiglia, ricordo e memoria sono qui lo stimolo, la sollecitazione alla scrittura, non solamente la materia che il poeta plasma e addomestica in canzone (termine che, a prima vista, sembrerebbe inappropriato per la dizione franta di Ruffilli, ma che in realtà è chiave: si leggano ad alta voce i suoi versi e ci si lasci trasportare dalla loro nascosta melodia, pudica nel non farsi percepire assecondando inarcature e enjambements che più che fratture sono il loro opposto – ambizione di giuntura, gancio e mano tesa sul ciglio del burrone: «…un segno / il dato, ma non / memoria o nostalgia, di ciò che è stato. / Amato o non amato / comunque, sconosciuto. / Perduto totalmente, / caduto dentro / il suo finire in / quello stesso / essere fissato / prima di perire»). Come in certi, patafisici esercizi da “OuLiPo”, ma senza la vanità né l’autocompiacimento di quel gruppo di comunque autorevoli giullari dello stile, infatti, Ruffilli sembra concepire, qui, la memoria anche come vincolo alla propria scrittura, il ricordo come limite alla propria immaginazione, perché mente e penna si potenzino e trovino strade, pertugi artistico-espressivi inediti e inauditi attraverso i quali (provare a) cogliere un’essenza. L’oggetto fotografia, allora, qui, carico pure di qualcosa di mistico-evocativo quasi fosse reliquia parlante, umanissimo manufatto scovato chissà dove, assume davvero il valore-limite di un divieto, di un cartello che, ingiungendo di non-oltrepassare, dà invece lo slancio per saltare definitivamente al di là: «(Io, di sei anni, / credo. Distratto, ma / non troppo, dal gioco / al tavolino con i / tasselli dell’alfabetario…) // La parola, per me/ veniva da distante. / Un a priori, quasi, / l’avvertivo. Un eccitante. / In un processo in / qualche modo inverso…». Come s’intuisce da questi versi, Camera oscura è anche un libro pieno di tenerezza: una tenerezza mai blanda, sempre autentica, tenerezza che sa di essere, spesso, molto più di ‘amore’, se i volti e i corpi cui si tende, ancora e ancora oltre il limite del tempo, hanno la consistenza insieme vivida e evanescente delle ombre dantesche: «(Ride mia madre / rovesciando il viso, / e muove appena / i capelli ondulati / sulla schiena. / Il giovane magro, / oltre lei levando / pensoso lo sguardo, / sta come incerto / di un sorriso. / Nella tiepida sera / che si indovina)». Una tenerezza, sì, e una bellezza, s’intuisce già anche questo, che è la stessa delle tenebre. Non c’è verso di Camera oscura in cui non serpeggi un che d’oscuro, un che forse di indicibile che ha a che fare con l’origine di tutti noi – quel “senso ultimo dell’uomo” di cui s’è scritto in apertura e che è, allora, in realtà, il senso primo d’ogni umano: un trauma astorico, universale, che Ruffilli non nomina mai, ma che, parlando solo di legami privatissimi, riesce a far emergere, «attratto / dalla logica per cui / le cose belle / devono far male».

Sacha Piersanti

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