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“LE ROVINOSE” DI CONCETTA D’ANGELI

“LE ROVINOSE” DI CONCETTA D’ANGELI

Il distacco è la condizione necessaria per raccontare la Storia, a maggior ragione quella dell’altro ieri, perché l’interpretazione del passato, vissuto in prima persona o in qualità di testimone, richiede distacco critico e obiettività oltre che problematicità interpretativa. In tal senso, è comprensibile che Concetta D’Angeli abbia scritto e pubblicato solo oggi, a più di quarant’anni dai fatti, questo racconto degli “anni di piombo”, il famigerato periodo delle stragi (Piazza Fontana, l’Italicus, Bologna, per citarne alcune) e delle guerre di mafia che scosse l’Italia con un numero enorme di morti dal 1976 al 1988. Periodo per altro decisivo in Italia per le donne, in una serie di conquiste fondamentali (dal divorzio alla legalizzazione dell’aborto) nella riforma del diritto di famiglia per il riconoscimento della parità di genere. E, non a caso, in queste pagine la storia vede come protagoniste due donne, allora ragazze, e le loro vite parallele segnate da mire e vicende diverse: Le rovinose (Il ramo e la foglia Edizioni), fin dal titolo legate all’inevitabile fallimento che le caratterizza pur nella ricchezza delle loro contraddittorie esperienze raccontate con incisività e grande finezza dall’autrice. Sono loro ad animare quasi a contrasto il plot di una infelice storia familiare privata sulla quale pesa esercitando la sua azione la violenza di quegli anni, patita non solo nel riverbero della realtà pubblica comune ma anche attraverso le interferenze immediate e concrete del vissuto del protagonista maschile. Organizzato in tre parti, il romanzo, suddiviso in dodici capitoli con una Cronologia finale parte integrante del testo, riflette il punto di vista “a specchio” di ciascuno dei protagonisti, in una sorta di caleidoscopio e in una costruzione strutturale molto interessante che mescola generi (memoriale, diario, epistola) e modi (prima e terza persona), con l’uso di una lingua vivace e scintillante.

Paolo Ruffilli

Intervista all’autrice

1) Come nasce il romanzo, dietro a quale idea?

Il mio punto di partenza quando scrivo i romanzi non è un’idea, cioè una formazione mentale strutturata, o una tesi che voglio dimostrare; parto piuttosto da un sentimento che voglio indagare o da un avvenimento che mi ha emozionata o da un personaggio (fittizio) al quale voglio dare vita e sviluppo. Poi, per avviare la narrazione, di solito ho bisogno di un’immagine, che può avere una funzione centrale nel racconto, o mantenersi laterale, o perfino scomparire. Nel caso di Le rovinose l’immagine è quella delle due protagoniste che si salutano, forse per sempre, di qua e di là da una porta chiusa a chiave.

2) Da cosa dipende la scelta delle due protagoniste? Un’opzione anche femminista?

Ho voluto rappresentare due ragazze, diverse per carattere e ambizioni, nel difficile momento delle scelte; hanno poco più di vent’anni ed è proprio allora che per lo più bisogna scegliere, quando non si ha esperienza, quando non si sa ancora quasi niente della vita; ma bisogna scegliere, e lo si fa alla cieca, spesso con molta angoscia, spesso con dolore. Quelle decisioni condizioneranno tutto il futuro. Perciò non sono per niente d’accordo con la celebrazione della giovinezza come l’età dell’oro, il tempo della spensieratezza e della libertà, e tantomeno condivido i luoghi comuni che ne accompagnano il rimpianto. La storia che racconto si svolge tra gli anni Settanta e gli Ottanta del Novecento, anni decisivi in Italia per la vita femminile, hanno introdotto cambiamenti che sovvertirono gli schemi tradizionali, dal divorzio (1970), all’abrogazione del divieto di propagandare e usare i contraccettivi (1971: conquista fondamentale perché alle donne fosse permessa una vita sessuale emancipata), alla riforma del diritto di famiglia (1975) che riconobbe la parità di genere nel matrimonio e cancellò il delitto d’onore, alla legalizzazione dell’aborto (1978). Fu una grande rivoluzione, avvenne anche nella vita quotidiana, nel modo di pensare e di giudicare, nei comportamenti, nell’abbigliamento, e tutto nella direzione di acquisire autonomia, aprire frontiere nuove; è difficile per le nuove generazioni rendersi conto del salto vertiginoso che si verificò allora, dell’entusiasmo e della forza vitale che lo accompagnarono. Dunque sì, adotto un punto di vista femminista: un’esperienza, del resto, che è stata e resta per me molto importante, sul piano personale, su quello politico e su quello culturale.  Insieme alla conquista di nuove libertà, però, nel romanzo ho voluto rappresentare anche le difficoltà che esse provocarono, lo smarrimento che indussero in chi cominciò a percorrere strade ancora inesplorate, sebbene finalmente autorizzate anche alle donne.

3) Come affronta il tema drammatico degli anni di piombo?

Il terrorismo (di destra e di sinistra) e le guerre mafiose (negli anni Settanta comincia l’ascesa dei Corleonesi) costituiscono lo sfondo della mia narrazione; si tratta di una cornice diciamo interattiva, perché non si limita a inquadrare la narrazione in un preciso momento della nostra storia ma assume un ruolo narrativo vero e proprio, sia perché interferisce con il passato del protagonista maschile sia perché costituisce l’aspetto politico e pubblico della violenza, che nel romanzo viene rappresentata soprattutto sul versante privato. Dell’orrore che allora attraversammo cerco di rendere conto attraverso una Cronologia finale, che considero parte integrante del racconto: è fatto dalla lista delle persone che dal 1976 al 1988 rimasero uccise in attentati terroristici o per mano delle diverse mafie. È un elenco impressionante.

4) C’è il tentativo di chiarire il nodo problematico dell’utopia rivoluzionaria che pretende il terrorismo?

No, non ne sarei capace; del resto, mi pare che chiarirlo sia difficile per tutti coloro che ci provano. Quanto a me, nel romanzo cerco solo di capire i meccanismi psicologici che hanno portato il protagonista maschile, Lorenzo, ad assumere un ruolo di fiancheggiamento in un gruppo armato e poi ad allontanarsene, forse spaventato forse insofferente. Lorenzo è un uomo violento, lo è stato negli anni della militanza terrorista, lo è nella vita privata; la causa sta forse nell’enorme distanza fra il suo bisogno di elaborare utopie avveniristiche e l’incapacità di realizzarle, una discrasia che lo condanna al ruolo di perdente. Ma certo non pretendo di estendere la condizione psichica di un personaggio a spiegazione del terrorismo di quegli anni; né mi sono ripromessa di affrontare il problema del rapporto fra utopie politico-ideologiche e lotta armata. A dire la verità, non credo nemmeno che sia compito della letteratura.

5) Che tipo di conclusione prevede per le sue protagoniste e perché?

Silvana e Clara, sebbene ricerchino entrambe il salto sociale che le sottragga a condizioni familiari infelici, fanno scelte molto diverse: Silvana punta sul proprio futuro professionale, diventa architetta, fa carriera, guadagna bene e, forte della nuova posizione sociale, dichiara pubblicamente la sua identità lesbica; Clara resta su un terreno tradizionale, usa la sua bellezza per sposare un ragazzo ricco, conduce un’esistenza di moglie in apparenza normale e, diventata benestante grazie al matrimonio, sembra appagata. Ma per entrambe, e sia pure in modi diversi, il futuro sarà rovinoso. Sulle ragioni che mi hanno portata a una conclusione tanto negativa non ho le idee chiarissime, quando scrivo mi pare che siano gli stessi personaggi a guidarmi verso certi esiti, anche contro il mio volere; li adotto perché mi sembrano coerenti con le loro personalità. Nel caso delle due “rovinose”, credo che il loro errore sia d’avere sbagliato le misure e gli obiettivi: Silvana è stata accecata da un eccesso di ambizione, Clara si è sottomessa acriticamente e così ha cancellato la propria identità.

6) Qual è la scelta stilistica strutturale del suo romanzo?

Non mi è stato facile organizzare il materiale narrativo, raccontare cioè in parallelo la vita di due coetanee, che a un certo punto si separano e però rimangono in contatto; per di più tutta la storia della loro amicizia si srotola come ricordo nella mente di Silvana. Quindi racconto frontalmente la vita di lei, sia quando le due ragazze vivono a Siena, si conoscono, si frequentano, sia successivamente, quando Silvana si trasferisce a Milano. La vita di Clara resta più segreta: nel periodo senese è sempre rappresentata attraverso lo sguardo dell’altra, più tardi, quando si trasferisce col marito in Puglia, sembra che sia raccontata in modo autonomo ma le lettere che scrive all’amica sono forse ingannevoli; solo nell’ultima parte, nelle pagine di diario ricevute da Silvana inaspettatamente e dopo un lungo silenzio, la voce di Clara si manifesta in piena sincerità. Sicché il romanzo risulta un po’ un memoriale dove si alternano la prima e la terza persona; un po’ un romanzo epistolare; un po’ un diario. Del resto, la libertà consentita dalle regole romanzesche, che sono permissive e adottano anche modi appartenenti ad altri generi, consente la variazione stilistica, che mi piace e mi diverte. Anche da lettrice.

7) Qualche indicazione sulla scrittura che adotta.

Amo la lingua italiana tradizionale, un po’ rétro a dire la verità, con la sua ricchezza lessicale, le strutture sintattiche complesse (le subordinate, gl’incisi, l’uso del congiuntivo…), ma mi piacciono anche le disarmonie, quando la lingua colta, che è la base della mia scrittura, viene “tagliata” e intersecata con dialettismi o frasi in dialetto vero e proprio, con le modalità sciatte del parlato, con frequenti intarsi colloquiali; il risultato sono effetti stridenti, forte contrasto. Aggiungo che il corpo a corpo con la lingua, soprattutto con una lingua come l’italiano, solenne e letteraria ma anche musicale e straordinariamente dolce, è un’operazione faticosa, e però gratificante quando ho l’impressione d’aver scelto le parole giuste, d’aver plasmato le frasi proprio come le volevo. Certo, è un’operazione che richiede moltissima pazienza e moltissimo tempo, ma credo che quest’impegno sia componente essenziale della scrittura creativa; anzi credo che proprio nella precisione della parola stia la sua moralità.

(a cura di Paolo Ruffilli)

 

 

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