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L’AUTOIRONIA DI VALERIO INNOCENTI

L’AUTOIRONIA DI VALERIO INNOCENTI

Valerio Innocenti, La casa dell’uva fragola (Marco Del Bucchia Editore). Quello  di crescere è un privilegio che ci viene dato, ma contiene in sé anche la sventura dell’abbandono e della rinuncia. Da piccoli, dopo un temporale, sembra di poterlo raggiungere con un salto il cielo di cobalto, poi il passo si fa pesante e il cobalto si stinge. E mancano i chicchi d’uva fragola ad addolcire le ferite. Ma sarebbe un errore pensare che questa raccolta di Valerio Innocenti sia intessuta di ricordi e proiettata nel passato. La casa dell’uva fragola non dà spazio al ripiegamento su se stessi. Con un linguaggio che predilige un registro alto e lo avvicina spesso ai classici che lui ama, che si esprime ora con allitterazioni stridenti, ora gioca con la rima, ora appare squadrato come un buon abito di taglio maschile, l’autore sviluppa un’analisi che parte dal sé, per estendersi all’altro, agli  aspetti che definiscono la nostra epoca e ai suoi prodotti. Il sé ha una timidezza di fondo che riduce all’osso la parola e preferisce affidare il messaggio allo sguardo. E’ un individuo dal “cuore ecumenico”, ma la sua mente “cerca categorie” e “remore” strane duellano dentro. L’altro, in realtà l’altra, si aggira leggera tra i versi con la promessa di un sorriso giovane, con lo sguardo malizioso, la parola ambigua, con una sensualità sottile sospesa. Allora la parola non si costruisce nel linguaggio aulico, ma si fa fluida con lo scorrere delle emozioni. Ma anche qui non ci si illuda. Una autoironia costante azzera ogni fuga nel pathos, con un atteggiamento di osservazione del sé dall’esterno, con lo stupore divertito di chi vede sgonfiarsi le fantasie. L’altro è sempre osservato con sensibilità acuta, fino dentro all’immagine fissata da un pittore, fino dentro alle sere innaffiate di  “versi e di vino”. La società è colta in haiku veloci, come con toccata e fuga, ma c’è tutto il male del presente, con la amara scoperta che le stelle non servono più  nemmeno ai poeti, perché nascoste da un velo di smog. Dell’oggi si immortalano tecnologie e riti, con una forma di accettazione consapevole, quasi rassegnata, di chi da tempo ha imparato ad adattarsi, sia pure con dolore, di fronte ad imposte che si chiudono, di fronte a occhi che ti eludono. La fantasia resta un dono per ritrovare la libertà del sogno. Con occhio che filtra le emozioni si recuperano gli strumenti dei riti quotidiani: sono gli  oggetti che hanno fatto parte della nostra vita, che hanno permesso le nostre attività, abbandonati su un ciglio, su una strada, su un bidone. Un requiem pietoso si solleva su questi  “reietti”, umanizzati e sofferenti. Vengono trattati con rispetto, quasi avessero preso su di sé il dolore delle azioni nefande dell’uomo.

Marisa Cecchetti

Prefazione

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