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‘DISSOLVENZE’ DI ZANGHERI

‘DISSOLVENZE’ DI ZANGHERI

La raccolta di Stefano Zangheri Dissolvenze (Edimond), come già rivela il titolo e come anche il poeta dichiara ad introduzione delle sue poesie, si incentra sull’evanescenza dell’esperienza della vita, di cui nulla resta stabilmente nella mente dei viventi – le memorie si dissolvono nel tempo e per altro già subito si sfaccettano in tante immagini transitorie e sovrapposte che tutte insieme non riescono che a delimitare molto vagamente quanto esperito. Il termine è mutuato dal cinema, dove l’ultima immagine di una scena o di una sequenza di scene si offusca fino a sparire del tutto in una tonalità di colore che di solito è il nero prima che si inserisca la nuova scena. Per analogia appunto con la tecnica cinematografica citata si deve supporre che in Stefano Zangheri le dissolvenze lascino dietro di sé il colore nero. Ciò non è irrilevante per il significato che ha il poetare dell’Autore: quanto resta dell’esperienza, brandelli di memoria, tutto scompare inghiottito dal nero, il colore dell’indifferenziato, assenza di ogni colore e per eccellenza la tonalità con cui è simboleggiato da sempre l’inconscio immaginato nella mente come schermo nero o comunque zona nera, oscura, dove non sta la razionalità portata dal linguaggio chiarificatore. È di fatto il linguaggio che ha la capacità di immagazzinare le spazialità dell’esperienza riprodotte nei suoi termini, nelle sue strutture che si fanno sempre più precise per tenere stretta proprio la memoria dell’esperienza, esperienza di eventi, di sensazioni, di emozioni, in breve: esperienza psicologica di ciascuno, quella che funge da tessuto connettivo della personalità come noi chiamiamo la somma di tutti i nostri modi di reagire alla vita confluita nel modo che diviene globalmente distintivo della nostra individualità. Ma anche il linguaggio è una dissolvenza, crea l’illusione di poter trattenere nella memoria qualcosa della nostra vita, ma appunto anche le sue spazialità si dissolvono, meno in fretta delle altre, ma comunque non sfuggono alla fine all’indifferenziato che tutto attende nel suo gorgo. Tra tanti tipi di parola, è la parola poetica quella che più può andare in profondità perché più vicina alla produzione di immagini per come si presentano dal muto e oscuro inconscio, luogo di tutte le dissolvenze, alla nostra mente. Così le esperienze per Zangheri si dissolvono una dopo l’altra senza lasciare soverchia traccia nel conscio e accatastandosi nell’inconscio più nero, da dove il poeta, colui che ricerca la parola creativa che possa fare luce nel buio delle dissolvenze, può estrarle per interpretarle all’interno della sua visione del mondo e per dare loro qualche forma nella consapevolezza. Ma le poesie stesse di Stefano Zangheri, così ci dice il poeta, rimangono dissolvenze, questo termine si addice anche alle poesie che cercano di trattenere l’essenza della vita in se stesse. Anch’esse dunque si dissolvono, dissolvenze esse stesse, come tutto ciò che produce l’essere umano nella visione dell’Autore. E di fatto tutte le poesie della raccolta hanno l’evanescenza di ciò che è per pochi attimi e subito non è più, hanno la leggerezza di ciò che affiora improvvisamente e presto scompare così come è affiorato. Allora perché scrivere, ci si potrà chiedere. Dà una risposta l’ultima poesia della raccolta che si intitola Per me ed è composta di dieci terzine brevissime tutte inizianti con il sintagma “per me”, come nel titolo, una risposta che va comunque oltre l’intenzione dichiarata e sconsolata dell’Autore. Il poeta scrive per sé e questo, per altro, vale per tutta l’arte, anche quella che si rivolga esplicitamente a qualcuno: il discorso poetico è in primo luogo dialogo del poeta con se stesso, non con altri. Si tratta di un dialogo-monologo adatto ad esprimere quanto non si lascia esprimere nei termini e nelle forme del linguaggio quotidiano insufficienti ad andare in profondità nell’inconscio più nero, là dove le strutture della logica linguistica non ci sono a rischiarare per così dire la sotterranea notte, detto con un’immagine fosco liana adattato al diverso contesto, ma che rende molto bene l’idea. È un dialogo interiore che non tutti sentono il bisogno di condurre, solo i poeti lo attuano. Poi sarà dialogo-monologo di tutti coloro che cercheranno l’aiuto e la compagnia del poeta per avvicinarsi anch’essi al mondo inconscio della propria interiorità Perché il poeta è colui che va là dove domina un immaginare che agli umani avvezzi alla razionalità del linguaggio può apparire senza senso, un immaginare fatto di flash che si annullano l’uno con l’altro, si accavallano, si sovrappongono, fuggono e ritornano sempre un po’ diversi o anche molto diversi pur restando riferiti alle medesime esperienze, come vogliono i meccanismi cerebrali spaziali della percezione, della memoria. Allora il poeta dipinge con le parole il quadro che riesce a comporre nella sua mente immaginifica. Tuttavia le poesie che Stefano Zangheri scrive per sé onde poter avere in mano, nella mente, qualcosa di compiuto, che abbia un senso ordinato, simmetrico, che possa dare l’impressione di possedere un mondo compreso, è soggetto anch’esso alla dissolvenza, le sue parole non trovano la rima, ossia non riescono nell’intento di ordinare il mondo delle esperienze trascorse e fungere così da ordinatrici del presente e modelli del futuro. Nella seconda terzina sta un’enallage forte, un verbo che da intransitivo si fa transitivo a testimoniare dello sforzo del poeta di fare parlare la voce, affinché dica la parola creativa che possa trattenere la vita in qualche modo, affinché possa parlare con il mondo intero, sforzo non riuscito: “parlo la voce”, dice l’Autore, e la parla per sé senza poter comunicare, senza farla uscire dall’evanescenza. Per sé ascolta i pensieri come noiose cantilene, che non dicono niente di nuovo, che non servono a catturare in qualche modo l’esperienza affinché non si dissolva. Per sé cerca di comprendere quanto non rientra nella norma più tranquilla e scontata e si presenta come dissonanza, come qualcosa che desta l’attenzione, che fa presumere che ci possa essere qualcosa di nuovo, di diverso, ma ciò che cerca vale per sé, non per gli altri, gli specchi riflettono le dissonanze, intendendo gli specchi come soggetto della frase, dissonanze che il poeta vede nella sua interiorità e che restano sua esperienza transeunte, il poeta stesso essendo monade senza finestre, senza la possibilità di interagire con gli altri, di capire ed essere capita dagli altri. Anche le sue nostalgie vengono inseguite solo per sé mentre fuggono via lontano, manca la condivisione dei sentimenti. Per sé il poeta dipinge il tempo che fa belle le ore delle giornate. Per sé il poeta sfugge anche le conoscenze che restano ferme, che non gli danno vita, che non vanno verso di lui, ma che aspettano anch’esse non si sa che cosa prive di risorse di vita, dissolvenze esse stesse come tutto il resto. Allora il poeta trattiene per sé anche gli sguardi che possono dare un incontro, le immagini che mantengono quanto promettono e per sé apre anche i regali destinati agli altri, li apre per sé poiché non ha potuto consegnarli agli altri, li apre per sé in perfetta e più che mai malinconica solitudine – poche cose ispirano maggiore malinconia che dover trattenere per sé i doni che erano stati pensati per altri. Ma Stefano Zangheri, nonostante la sua malinconica e solitaria visione di un mondo in dissolvenza, non è solo, non ha trattenuto i doni per sé come ha creduto in un ripiegamento lirico quanto sofferto su se stesso. Egli ha dato voce sommessa ma udibile alle dissolvenze suo malgrado, anche se non come avrebbe voluto o sperato. E i regali destinati agli altri che pensa di dover tenere per sé in quanto non accettati, non voluti, comunque non giunti a destinazione, i suoi sentimenti, le sue emozioni, i suoi pensieri espressi nelle sue poesie sono invece dono meraviglioso per gli altri che ne possono usufruire, seppure in perfetta solitudine anch’essi – la poesia non è compagna di feste chiassose, è compagna delle ore più solitarie. Le dissolvenze di Stefano Zangheri hanno fatto comunque emergere con inequivocabilità, seppure con delicatezza, in punta di piedi, il lato più sfuggente della personalità di ciascuno a livello per così dire di software cerebrale e psicologico, di circuiti elettrici che compaiono e scompaiono senza lasciarsi più ritrovare o lasciandosi ritrovare visti attraverso il filtro della dissolvenza che ne offusca l’identità, senza quella chiarezza che il poeta avrebbe voluto attingere con la sua parola creativa. Una poesia, quella di Stefano Zangheri, che consegna comunque al lettore il dono che viene dal profondo della sua interiorità, un’interiorità in cui il poeta molto umilmente riconosce come sia impossibile per l’umanità uscire dalla dissolvenza, la quale porterà via con sé alla fine anche la vita stessa di ciascuno rendendola introvabile per sempre in qualsiasi luogo possa esistere nell’Universo, risucchiata nel buio che attende tutte le dissolvenze di quanto ha avuto vita. Certo non ci sono illusorie quanto assurde volontà di potenza nel poetare di Stefano Zangheri, in compenso c’è un sentimento di solidarietà umana nella non buona e comune sorte che lega tutti gli umani nella sofferenza di un esistere che non pare trovare soverchio senso, ma che ha i suoi attimi di bellezza, la “polvere d’oro”, le “lucenti perle” pur incastonate in una fede che non riesce ad eliminare né a ridurre la solitudine, le “onde di luce” che per quanto di breve durata possono dare qualche scintilla luminosa, qualche momento di calore, così da tenere un po’ lontana la dissolvenza che tutto riceve comunque. Ciò secondo la poesia di Stefano Zangheri.
Rita Mascialino

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