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RICORDO DI BARBERI SQUAROTTI

RICORDO DI BARBERI SQUAROTTI

Giorgio Barberi Squarotti è stato uno dei maggiori critici letterari italiani. Ha alle spalle trentasette anni di insegnamento (molti dei quali come professore ordinario di Letteratura italiana all’Università di Torino), e numerosi saggi di grande rilievo: da “Astrazione e realtà” del lontano 1960 agli studi fondamentali su Pascoli, D’Annunzio, Verga. Lo abbiamo incontrato nel 2003 nei Castelli Romani in occasione della presentazione del suo ultimo saggio, Addio alla poesia del cuore (Sovera editore). A chi gli chiede se in questi tempi così confusi possa esserci ancora spazio per la letteratura, risponde: «C’è e ci sarà sempre spazio per la letteratura. Diceva il mio amico Franco Fortini che la letteratura è sì un’attività secondaria – secondaria rispetto al mangiare, al dormire, al lavoro, alla vita insomma – ma comunque fondamentale. Perché senza di essa l’uomo sarebbe meno capace di ‘vedere’ e di capire sé stesso e il mondo».

Vorremmo partire da uno dei grandi autori a lei più cari: Dante. In un suo saggio, c’è una osservazione molto interessante e, se vogliamo, originale, legata a un verso dell’ottavo canto dell’Inferno: «Benedetta colei che in te s’incinse»…

No, direi che c’è un netto distacco fra Dante e ogni possibile riferimento con Cristo. Direi piuttosto che Dante pensa a se stesso come a colui che ha ‘completato’ la Bibbia, Antico e Nuovo Testamento. San Giovanni afferma che come saremo dopo la morte non possiamo saperlo. Dante, invece, cerca di rispondere a questo mistero e, per concessione divina, rivela l’immagine della vita ultramondana.

C’è una figura di letterato cui lei ha dedicato molte pagine, quella di Gabriele D’Annunzio. Ricordiamo un’intervista in cui lei disse che pur ammirando fortemente D’Annunzio, non era certo uno dei suoi autori prediletti. Come spiega questa apparente incongruenza?

Direi che questa considerazione non è tanto una contraddizione, giacché nella critica letteraria bisognerebbe fare esattamente il contrario di quello che ha fatto De Sanctis: l’interesse e lo studio di un autore non deve, in nessun modo, essere limitato per una minore o maggiore simpatia da parte del critico per l’autore stesso. Credo che D’Annunzio sia certamente una delle figure fondamentali della letteratura non solo italiana ma mondiale. E questo non vuol dire che io non preferisca altri autori: quelli a cui mi sento più vicino sono certamente Dante, Shakespeare, Eliot, PoundPascoli e Montale.

A proposito di Pascoli, qual è il bilancio, oggi, sull’opera di quest’autore che la tradizione scolastica, anziché valorizzarlo, ha sminuito?

Io credo che Pascoli abbia mutato radicalmente quella che era la concezione della poesia ottocentesca. In un momento in cui esplode la conoscenza scientifica, Pascoli si chiede: dopo aver saputo come stanno le cose secondo la scienza, cosa c’è ancora al di là? Il dubbio, l’angoscia della morte, il nulla. La scienza, a tutto questo, non riesce mai a dare spiegazioni. E ‘tutto questo’ è in Pascoli il mistero.

Il suo ultimo libro si apre con Sant’Alfonso e si chiude con Leopardi. C’è qualcosa che lega questi due autori?

Io non amo molto la poesia del cuore, quella patetica, che si rivolge all’interiorità e non vede accanto a sé e fuori di sé quello che è la verità sull’esistenza, che insomma si chiude su sé stessa. Sant’Alfonso, nelle sue poesie e soprattutto nei suoi scritti religiosi, è un autore che richiama al cuore e invita il lettore a sentire appassionatamente sia l’amore divino sia tutto quello che è relativo alla passione, all’affetto. Mi sembrava giusto partire da Sant’Alfonso come un esempio di autore di argomento religioso che gioca tutto sul sentimento e sul cuore. Di lì poi deriva anche il discorso su Leopardi, che invece supera la poesia del cuore e raggiunge risultati altissimi.

Montale è il Novecento. Il suo “alter ego” Arsenio, lei ha detto, incarna proprio la figura dell’uomo contemporaneo. Cosa resta oggi di quel messaggio poetico?

In fondo, la poesia del Novecento, fino a questi primi anni del Duemila, rimane fortemente legata a Montale, soprattutto al Montale in cui è presente il discorso di carattere filosofico. Guardiamo alla poesia contemporanea e pensiamo a quanto rapidamente si è dissolta la poesia della Neoavanguardia. Oggi, dei poeti della Neoavanguardia resta solo Sanguineti, che ha in sé una durata di idee, di memorie letterarie e filosofiche che gli dà continuità e valore, nonché una capacità di ironia che tutti gli altri poeti di quella corrente letteraria non hanno avuto. E un altro autore di oggi capace di allargare e rivisitare i modelli del Novecento è Luzi, che è fondamentalmente un poeta religioso. Entrambi, seguendo la lezione di Montale, trattano – anche se in modo assolutamente diverso –  i problemi fondamentali dell’essere.

Uno degli autori più discussi e allo stesso tempo più amati del Novecento è Giuseppe Ungaretti.

Ungaretti è sicuramente il rappresentante più significativo e più duraturo, nel Novecento, di quella che io chiamo ‘poesia del cuore’. Soprattutto i testi della prima raccolta, L’Allegria, e quelli scritti durante la Prima Guerra Mondiale, sono un esempio mirabile della celebrazione di sé e della poesia, della propria passione per la vita, e del suo essere contro una realtà ingiusta, la guerra stessa. Ecco, io ammiro molto l’Ungaretti de L’Allegria. Come autore gli preferisco Montale, ma quando insegnavo all’Università, mi piaceva parlare ogni tanto di Ungaretti, e lo rileggo volentieri.

Quale autore è riuscito, secondo lei, a dipingere in maniera più “oggettiva” – al di là, quindi della poesia del cuore – il secolo appena trascorso?

Di Montale abbiamo già parlato. Ma, uscendo dal campo della poesia, direi che ammiro molto un autore della mia regione, Beppe Fenoglio, e amo moltissimo Carlo Emilio Gadda. Quella di Gadda è una lezione fondamentale nella letteratura moderna: la sua capacità straordinaria di passare dal tragico al grottesco nel tentativo di comprendere il significato dell’esistenza rimane insuperata.

Quando è nata, in lei, professore, la passione per la letteratura?

Già da molto piccolo mi interessava leggere. Credo che sia una vocazione. Ho due figli: uno, che insegna come me e che ha sempre letto moltissimo, l’altra, mia figlia, che invece è molto più distaccata – e più ironica – nei confronti della letteratura. E ho due nipotini: uno, appassionato già della lettura, e l’altra, a cui della lettura non importa assolutamente niente. Ma questo in fondo è anche il bello della vita.

Paolo Di Paolo

ItaliaLibri

2003

124

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