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IN MARGINE ALLA POESIA DI VETTORELLO

IN MARGINE ALLA POESIA DI VETTORELLO

La limpida poesia di Rodolfo Vettorello è una specie di musica del nulla: come un antico artigiano di rime, ritmi e accenti, questo singolare, defilatissimo, quasi invisibile poeta ci dice e ripete in versi spesso perfetti che nulla ha senso, o che il solo senso è il nulla: che la sua vita è una poverissima cosa: che presto la morte lo afferrerà e di lui, della sua storia e delle sue parole, dei suoi versi, della sua musica non resterà alcuna traccia. Come quando leggiamo uno dei maestri supremi del nichilismo moderno, Emile Cioran, una domanda torna a farsi strada in noi mentre percorriamo i versi del poeta italiano: se ciò che essi dicono è vero, cosa può spingere il loro autore a scriverli? Nel regno di quella specie di morte anticipata che è la sua esistenza si annida anche una forza residua? Nel caso di Cioran è evidente come la forza che lo induce, nonostante tutto, a scrivere sia il gusto del paradosso, un gusto che sa di continuo liberare immagini acri e fulminee, scintille urticanti, acidi corrosivi. Cioran ama rigirare il coltello nelle piaghe della sua e nostra miseria ontologica, ama soffrire e far soffrire, e da questa forma di masochismo e sadismo sa ricavare delle risate sinistre, delle smorfie beffarde, delle maschere in cui il tragico si mescola vertiginosamente al grottesco. La voce di Vettorello non ha quasi niente in comune col teatro della crudeltà inscenato dal grande aforista rumeno, per quanto non disdegni anche lui, a tratti, di gettare parole amare, perfino risentite e indignate contro l’enormità dell’assurdo che tutti ci soffoca e schiaccia. Assai più che un maestro del paradosso acido e urticante, Vettorello ricorda qualche personaggio del romanzo russo dell’Ottocento eternamente in bilico tra una nera disperazione e il bisogno di alleviarla confidandosi con gli amici, perennemente sospeso tra i richiami dell’abisso e quella piccola, umile ricerca quotidiana di attimi di tregua che può sempre aiutare le anime delicate e ferite. Refrattario alle pose isteriche e mélo come a quelle sentimentali o patetiche, capace di riflessioni rigorose, nutrito di quel senso dei rapporti, delle umane distanze e delle misure del pensiero che forse solo un architetto (quale egli è) può conoscere, Vettorello si muove tra la vita e la scrittura con naturalezza, semplicità e lucidità. Sia le esasperazioni dell’intelligenza disincantata che le intransigenze dei filosofi dell’arido nulla ripugnano al suo spirito votato all’understatement, ai toni smorzati, alla penombra, alle parole simili a cristalli tersi e leggeri. Capace di denunciare il nonsenso del mondo con una sorta di quieto pudore, Vettorello è convinto che uno dei pochi privilegi dei vecchi sia il loro essere liberi da ogni furia unilaterale e da ogni cieco estremismo, il loro capire che “ogni storia / ha un senso ed il suo opposto”. Anche lui, dunque, giunto al paese della vecchiaia, vede con chiarezza come il mistero del mondo si giochi fra l’essere e il nulla, tra l’odio e l’amore, tra la guerra di tutto contro tutto, da un lato, e il bisogno delle creature, dall’altro, di rifugiarsi nell’abbraccio, nella tenerezza, nella poesia dell’incontro. La realtà, già intollerabile nella sua essenza, diventa tremendamente amara quando è dominata dagli atteggiamenti opportunistici, dai falsi amici,  dall’ingenerosità:  malgrado il suo lato magico Milano è una città triste e corrotta, portata assai più a prendere che a dare, una città in cui trionfano il male e l’ipocrisia. Ma forse quasi tutta la realtà è come Milano. Di fronte ai vortici della meschinità e della violenza gratuita, forse le sole strade che restano alle anime più sensibili sono l’autoumiliazione –  l’accettazione senza riserve di tutto quanto le avvilisce – o, viceversa, l’invocazione di un Dio non di misericordia ma di aspra giustizia, “un Dio guerriero che sia scudo e spada, / un Dio severo in grado di punirci / per tutto il male assurdo che facciamo”. Eppure, sembra dirci Vettorello in altri momenti, non tutto è atroce: l’amore ha ancora dei luoghi, degli attimi, dei gesti segreti nei quali resiste. Se Montale,  oscillando fra il “male di vivere”  e il sogno di nutrimenti celesti, ha ricordato a tutto il Novecento, con la sua “Anguilla”,  che c’è sempre qualcosa che rinasce “quando tutto pare / incarbonirsi”, anche per Vettorello è fondamentale cogliere “il fiato caldo della vita” dovunque e comunque si manifesti: tra i reietti della terra (nel “bronzo” della loro pelle, nel nero dei loro occhi) come nelle movenze strane di una lucertola vibrante del desiderio di sole; nelle rondini che, tornando, risvegliano con i loro gridi l’incanto della primavera perfino in una Milano dove il cielo è plumbeo come nel vento che, mescolando le nubi con i nuovi profumi degli alberi e dell’erba, sembra invitare lo spirito all’oblio, al libero gioco della fantasia e, con essa, alla luce di quell’altrove in cui la ragione non crede. Quando qualche bagliore di élan vitale raggiunge il poeta, egli è tentato da quella leggerezza che, con rimpianto, riconosce di non aver mai davvero onorato. Allora una sorta di vibrazione dionisiaca risuona, per qualche istante, nei suoi versi: allora ciò che egli vorrebbe liberare dentro di sé è la forza fiammeggiante del desiderio o quell’ebbrezza, quella divina “follia” che riconosce nell’opera di altri poeti. Ma questi istanti sono fugaci come foglie al vento. Ciò che prevale di gran lunga in lui è la seduzione della rinuncia, il bisogno di piegarsi, di farsi piccolo, di trovare la propria dimora in una sorta di via della kenosis, in un’etica o in uno stile del vuoto accettato, accolto, perfino amato. Nemmeno questa via, però, è percorribile facilmente, se, mentre tenta di gettarsi in essa, il poeta sente premere contro il fianco dell’anima l’aculeo pungente dell’amore coniugale, amore umano, troppo umano, che vorrebbe ma non può salvarlo dal richiamo del nonsenso. Esemplare, a questo proposito, è la parte finale di “Sarebbe più facile tutto”, una delle liriche più struggenti di Vettorello.  Leggiamola: “[…] Se tu non mi amassi / sarebbe più facile tutto. / Potrei liberarmi dall’ansia di esistere ancora / per te, come sei, / per l’arco di luce negli occhi che hai, / per l’ultimo gesto che fai per tenermi / sul limite assurdo / di questa scogliera di abbracci. / Se tu non mi amassi / sarebbe più facile tutto.” Questi versi mi ricordano un tanka  di un celebre poeta giapponese del nono secolo, Ariwara no Narihira: “Se non ci fossero / in questo mondo / i fiori del ciliegio / il cuore in primavera / sarebbe più sereno.” Di cosa ci parlano, a distanza di milleduecento anni l’uno dall’altro, questi due testi? Di quella fragile illusione d’assoluto che ogni forma di bellezza – quella racchiusa nelle fioriture primaverili come quella che trema negli abbracci dei coniugi anziani – custodisce in sé per un tempo troppo breve prima di rivelare la propria natura effimera, inconsistente. Poiché non c’è forse esperienza più lancinante di questa rivelazione –  poiché il cuore si sentirà sopraffatto dal dolore quando i ciliegi sfioriranno, quando gli abbracci cederanno al gelo finale –, non sarebbe meglio essere da sempre privi di quell’illusione? Anziché sprofondare nella disperazione non sarebbe meglio essere fin dall’inizio liberi dalla speranza? È questo che i due poeti si chiedono in modi diversi e fraterni lasciandoci assorti e sgomenti. La grande tradizione giapponese, però, non testimonia solo i momenti di struggimento dello spirito di fronte all’impermanenza delle cose e degli esseri, ma insegna anche, attraverso lo Zen, l’equidistanza liberatoria dalla speranza e dalla disperazione, l’arte intrepida del distacco. Il poeta italiano non sembra conoscerla, o non sembra considerarla praticabile. Se la speranza è cancellata, ci dicono molti suoi versi, la disperazione si accampa dentro di noi: non c’è altra possibilità che questa, non c’è altra chance. A questa luce cosa può fare la poesia in certi giorni se non ridursi a una testimonianza del poco, se non restringersi in uno spazio di residui, di “ciottoli”, di larve, di memorie sbiadite, di cimeli dell’inutile, di frammenti senza significato, di parole simili ai “brani” sfilacciati di un vecchio tappeto? Ancora più che il Montale dei “cocci aguzzi di bottiglia” (nel poeta degli Ossi, lo sappiamo, il senso tragico del limite è sempre in qualche modo contraddetto da un pathos di trascendenza, dal respiro del mare o dal soffio di ciò che ci trascina “più in la”), è lo Sbarbaro  rassegnato alle “scialbe passioni”, alle “emozioni frenate” o ai “delusi pensieri” il maestro del Vettorello  più dominato dal “peso di vivere a lato”, cioè dall’impossibilità di esistere e scrivere se non come una controfigura di se stesso, se non come una creatura dei margini o un’ombra fluttuante tra corpi e fantasmi. Anche rispetto all’eredità del Simbolismo Vettorello ci appare un poeta “a lato”, uno spirito diverso, umbratile e solitario. Se i seguaci della moderna scuola orfica hanno creduto nel potere sacro o teurgico, nel valore sapienziale e magico della Parola, per il nostro poeta il linguaggio, nonostante i suoi riverberi e le sue potenzialità metaforiche, sa rivelarci solo, alla fine, che la vita è pura apparenza, che tutto è “un gioco di Parole” (“Vangelo di Giovanni”). Il Logos degradato a intarsio combinatorio, a gioco di agudezas o di pointes, a pratica metalinguistica: non è forse questa la prospettiva sarcastica entro cui spesso si muove l’ultimo Montale? Dopo aver sfiorato, o anche esplicitamente evocato in alcuni suoi componimenti il grande poeta tragico degli Ossi o delle Occasioni, Vettorello sembra attingere dal caustico, sghembo bazar di Satura e delle altre estreme raccolte montaliane per ricordarci il carattere posticcio, convenzionale, fatto solo di suoni in fuga, della cosiddetta realtà. Ma questa consapevolezza di quanto insostanziale sia la presunta sostanza delle cose non basta a spiegare l’incanto, la musica profonda –  certamente non solo formale –  dei versi migliori, delle parole più limpide di Vettorello. Nonostante il lato rudimentale, greve, dei nostri tempi, nonostante il caos imperante, nonostante la “tristezza di periferia” nei “casermoni disumani” di Rogoredo, nonostante gli scompartimenti dei treni per pendolari intrisi di acri odori, o “il vento del deserto” che raggiunge il nostro stanco occidente seminando sabbia sulle macchine in sosta, qualcosa di simile a una musica si alza ancora dagli scenari del mondo per quelli che sanno udirla: Vettorello è senza dubbio fra loro. A volte i suoi versi assomigliano alle povere, roche ma umanissime canzoni delle notti popolari: “[…] È sempre triste la città puttana / ma nel chiarore pallido di luna / una canzone sale dai binari, / Porta Romana tu, / Porta Romana.” Altre volte la sua musica è solo il batticuore di chi crede necessario cancellarsi, è solo una lieve vibrazione del silenzio: “Non piangere, cara, ci tocca; / ai vecchi non resta che farsi da parte”. Ma nei momenti più originali il miracolo di Vettorello è la capacità di ribaltare il piccolo o il minimo – i trucioli dell’anima, i frammenti delle delusioni, le stille dell’amarezza  –  nel respiro e nel mistero della grande lirica. Versi quali “Andare via da qui, come d’autunno / la nube spinta al filo d’orizzonte / da un alito di vento mentre il giorno / apre le porte a un brivido di luna” non hanno forse qualcosa dei sortilegi arcani, traslucidi di Penna? E cosa sentiamo in “O nere e bianche rondini, pensieri / in alto sopra i tetti e gli abbaini” se non un’eco delle freschissime, quasi fiabesche cadenze del Seme del piangere di Caproni? Se non rischiassi di schiacciarlo sotto termini di confronto troppo grandi, mi piacerebbe dire che la musica di questo poeta così originale, così “a sé” nel panorama lirico contemporaneo, ricorda qua e là gli armonici di Petrarca, i suoi endecasillabi “unti d’olio soavissimo”, o scorre col nitore, con la scioltezza intima della lirica filosofica di Leopardi. Privo d’ogni fede nell’assoluto, Vettorello crede almeno nel valore ultimo della poesia, crede che il battito più vero della poesia cominci sull’orlo dello sfacelo, sul filo delle sconfitte più rovinose della mente e del cuore. Intriso di quest’unica religione, egli sa captare dal fondo dell’assurdo dei semi d’immagini e degli echi sonori, poi sa lasciarli vibrare e decantare in versi quali “Mi sento così chiaro e trasparente / come potesse il vento attraversarmi”,  o quali: “[…] Io sono come il cane che mi ha amato, / il passero trovato in un cespuglio. / Io sono come il fiore sul balcone / che vive il tempo che gli è stato dato. / Vorrei, per il mio giorno di commiato, / potermi cancellare dal registro, / vorrei poter morire / integralmente / e non lasciare tracce, / nessun segno, / niente.” Non è facile trovare le parole giuste per commentare versi del genere. Forse ha parlato di essi, senza saperlo, Lucilio Santoni quando, anni fa, ha scritto nella sua Apologia del perdente: “Talvolta l’esistenza nuda tenta di riprodurre, di dare una voce a ciò che percepisce col suo implacabile udito. Ne esce un suono disperato, che rompe il silenzio della città. Chi passa di lì racconta di qualcosa di inaudito”.

Paolo Lagazzi

Motivazione del Premio Montale Fuori di Casa

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Commenti 1

  1. Guglielmina Rusconi

    Con la sua motivazione il Prof. Paolo Lagazzi rende un onore insperato alla scrittura dell’autore. Cito in particolare le sue ultime parole illuminanti e generose.
    “Se non rischiassi di schiacciarlo sotto termini di confronto troppo grandi, mi piacerebbe dire che la musica di questo poeta così originale, così “a sé” nel panorama lirico contemporaneo, ricorda qua e là gli armonici di Petrarca, i suoi endecasillabi “unti d’olio soavissimo”, o scorre col nitore, con la scioltezza intima della lirica filosofica di Leopardi. Privo d’ogni fede nell’assoluto, Vettorello crede almeno nel valore ultimo della poesia, crede che il battito più vero della poesia cominci sull’orlo dello sfacelo, sul filo delle sconfitte più rovinose della mente e del cuore. Intriso di quest’unica religione, egli sa captare dal fondo dell’assurdo dei semi d’immagini e degli echi sonori, poi sa lasciarli vibrare e decantare in versi quali “Mi sento così chiaro e trasparente / come potesse il vento attraversarmi”, o quali: “[…] Io sono come il cane che mi ha amato, / il passero trovato in un cespuglio. / Io sono come il fiore sul balcone / che vive il tempo che gli è stato dato. / Vorrei, per il mio giorno di commiato, / potermi cancellare dal registro, / vorrei poter morire / integralmente / e non lasciare tracce, / nessun segno, / niente.” Non è facile trovare le parole giuste per commentare versi del genere. Forse ha parlato di essi, senza saperlo, Lucilio Santoni quando, anni fa, ha scritto nella sua Apologia del perdente: “Talvolta l’esistenza nuda tenta di riprodurre, di dare una voce a ciò che percepisce col suo implacabile udito. Ne esce un suono disperato, che rompe il silenzio della città. Chi passa di lì racconta di qualcosa di inaudito”.

    Paolo Lagazzi

    Motivazione del Premio Montale Fuori di Casa

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