Giorgio
CAPRONI

Giorgio Caproni è nato a Livorno nel 1912. All’età di dodici anni ha lasciato Livorno e ha compiuto i primi studi a Genova, frequentando in seguito i corsi di violino e composizione al Conservatorio e conseguendo privatamente l’abilitazione magistrale. Nel 1939, dopo un breve periodo a Pavia, si è trasferito a Roma, dove ha abitato per tutta la vita e dove è morto nel 1990. Dopo aver partecipato alla guerra e alla Resistenza, è stato per molti anni maestro elementare. Ha pubblicato, di poesia: Come un’allegoria 1932-1935 (1936), Ballo a Fontanigorda (1938), Finzioni (1941), Cronistoria (1943), Il passaggio di Enea. Prime e nuove poesie raccolte (1956), Il seme del piangere (1959), Congedo del viaggiatore cerimonioso e altre prosopopee (1965), Il Terzo libro e altre cose (1968), Il muro della terra (1975), Erba francese (1979), Il franco cacciatore (1982), Versicoli del controcaproni (1969), Tutte le poesie (1983), Il Conte di Kevenhüller (1986), Res amissa (1991), L’opera in versi (1998); di narrativa: Il labirinto (1984), Frammenti di un diario 1948-1949 (1995), La valigia delle Indie e altre prose (1998), Racconti scritti per forza (2008); di saggistica: La scatola nera (1996), Era così bello parlare. Conversazioni radiofoniche (2004), Giudizi del lettore. Pareri editoriali (2006). È stato un traduttore dal francese (e più raramente da altre lingue): Il tempo ritrovato di Marcel Proust, I fiori del male di Charles Baudelaire, Morte a credito di Louis-Ferdinand Céline, Bel Ami di Guy de Maupassant, La mano mozza di Blaise Cendrars, Il silenzio di Genova e Non c’è paradiso di André Frénaud, Nostra Signora dei Fiori, Miracolo della rosa, Querelle di Brest, Pompe funebri, Diario del ladro, Le serve, Il balcone, Sorveglianza speciale e I paraventi di Jean Genet, Max e Moritz di Wilhelm Busch, L’educazione sentimentale (versione del 1845) di Gustave Flaubert, oltre a poesie di Guillaume Apollinaire, Federico García Lorca, René Char.

http://it.wikipedia.org/wiki/Giorgio_Caproni

http://www.treccani.it/enciclopedia/giorgio-caproni/

POESIE

da IL SEME DEL PIANGERE

A Rina
Nell’aria di settembre (aria
d’innocenza sul chiareggiato
colle) sopra le zolle
ruvide mi sono care
le case a colori grezzi
del tuo paese natale.

Scherzano battendo l’ali
candide sui tetti a fiore
giunti, le colombelle
nuove.

Mentre commuove
dei voli l’aria il giro
tondo, nel cielo ai tocchi
festevoli delle campane
è il lindore dei tuoi virginei
occhi.

Atque in perpetuum frater
Atque in perpetuum, frater…
Quanto inverno, quanta
neve ho attraversato, Piero,
per venirti a trovare.

Cosa mi ha accolto?

Il gelo
della tua morte, e tutta
tutta quella neve bianca
di febbraio – il nero
della tua fossa.

Ho anch’io
detto le mie preghiere
di rito.

Ma solo,
Piero, per dirti addio
e addio per sempre, io
che in te avevo il solo e vero
amico, fratello mio.

L’uscita mattutina
Come scendeva fina
e giovane le scale Annina!
Mordendosi la catenina
d’oro, usciva via
lasciando nel buio una scia
di cipria, che non finiva.

L’ora era di mattina
presto, ancora albina.
Ma come s’illuminava
la strada dove lei passava!

Tutto Cors’Amedeo,
sentendola, si destava.
Ne conosceva il neo
sul labbro, e sottile
la nuca e l’andatura
ilare – la cintura
stretta, che acre e gentile
(Annina si voltava)
all’opera stimolava.

Andava in alba e in trina
pari a un’operaia regina.
Andava col volto franco
(ma cauto, e vergine, il fianco)
e tutta di lei risuonava
al suo tacchettio la contrada.

Sono donne che sanno
Sono donne che sanno
così bene il mare

che all’arietta che fanno
a te accanto al passare

senti sulla tua pelle
fresco aprirsi di vele

e alle labbra d’arselle
deliziose querele.

Il carro di vetro
Il sole della mattina,
in me, che acuta spina.
Al carro tutto di vetro
perché anch’io andavo dietro?

Portavano via Annina
(nel sole) quella mattina.
Erano quattro cavalli
(neri) senza sonagli.

Annina con me a Palermo
di notte era morta, e d’inverno.
Fuori c’era il temporale.
Poi cominciò ad albeggiare.

Dalla caserma vicina
allora, anche quella mattina,
perché si mise a suonare
la sveglia militare?

Era la prima mattina
del suo non potersi destare.

Maggio
Al bel tempo di maggio le serate
si fanno lunghe; e all’odore del fieno
che la strada, dal fondo, scalda in pieno
lume di luna, le allegre cantate
dall’osterie lontane, e le risate
dei giovani in amore, ad un sereno
spazio aprono porte e petto. Ameno
mese di maggio! E come alle folate
calde dall’erba risollevi i prati
ilari di chiarore, alle briose
tue arie, sopra i volti illuminati
a nuovo, una speranza di grandiose
notti più umane scalda i delicati
occhi, ed il sangue, alle giovani spose.

CONGEDO DEL VIAGGIATORE CERIMONIOSO
Amici, credo che sia
meglio per me cominciare
a tirar giù la valigia.
Anche se non so bene l’ora
d’arrivo, e neppure
conosca quali stazioni
precedano la mia,
sicuri segni mi dicono,
da quanto m’è giunto all’orecchio
di questi luoghi, ch’io
vi dovrò presto lasciare.

Vogliatemi perdonare
quel po’ di disturbo che reco.
Con voi sono stato lieto
dalla partenza, e molto
vi sono grato, credetemi,
per l’ottima compagnia.

Ancora vorrei conversare
a lungo con voi. Ma sia.
Il luogo del trasferimento
lo ignoro. Sento
però che vi dovrò ricordare
spesso, nella nuova sede,
mentre il mio occhio già vede
dal finestrino, oltre il fumo
umido del nebbione
che ci avvolge, rosso
il disco della mia stazione.

Chiedo congedo a voi
senza potervi nascondere,
lieve, una costernazione.
Era così bello parlare
insieme, seduti di fronte:
così bello confondere
i volti (fumare,
scambiandoci le sigarette),
e tutto quel raccontare
di noi (quell’inventare
facile, nel dire agli altri),
fino a poter confessare
quanto, anche messi alle strette,
mai avremmo osato un istante
(per sbaglio) confidare.

(Scusate. È una valigia pesante
anche se non contiene gran che:
tanto ch’io mi domando perché
l’ho recata, e quale
aiuto mi potrà dare
poi, quando l’avrò con me.
Ma pur la debbo portare,
non fosse che per seguire l’uso.
Lasciatemi, vi prego, passare.
Ecco. Ora ch’essa è
nel corridoio, mi sento
più sciolto. Vogliate scusare).

Dicevo, ch’era bello stare
insieme. Chiacchierare.
Abbiamo avuto qualche
diverbio, è naturale.
Ci siamo – ed è normale
anche questo – odiati
su più d’un punto, e frenati
soltanto per cortesia.
Ma, cos’importa. Sia
come sia, torno
a dirvi, e di cuore, grazie
per l’ottima compagnia.

Congedo a lei, dottore,
e alla sua faconda dottrina.
Congedo a te, ragazzina
smilza, e al tuo lieve afrore
di ricreatorio e di prato
sul volto, la cui tinta
mite è sì lieve spinta.
Congedo, o militare
(o marinaio! In terra
come in cielo ed in mare)
alla pace e alla guerra.
Ed anche a lei, sacerdote,
congedo, che m’ha chiesto s’io
(scherzava!) ho avuto in dote
di credere al vero Dio.

Congedo alla sapienza
e congedo all’amore.
Congedo anche alla religione.
Ormai sono a destinazione.

Ora che più forte sento
stridere il freno, vi lascio
davvero, amici. Addio.
Di questo, sono certo: io
son giunto alla disperazione
calma, senza sgomento.

Scendo. Buon proseguimento.

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