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TUTTE LE POESIE DI ALESSANDRO RICCI

TUTTE LE POESIE DI ALESSANDRO RICCI

È da poco in libreria Tutte le poesie (Edizioni Europa), un volume che raccoglie l’opera edita (più alcuni inediti) di Alessandro Ricci (Garessio 1943 – Roma 2004). Da Le segnalazioni mediante i fuochi del 1985, passando per Indagini sul crollo del 1989, I cavalli del nemico del 2004, le tre raccolte pubblicate in vita (l’ultima, da lui organizzata, l’autore non giunse mai a vederla stampata). Le altre due, L’arpa romana del 2007, e L’editto finale del 2014, uscirono, a cura di chi scrive, con i numerosi inediti lasciati dal poeta. «Un dilettante che racconta storie veramente accadute». Si definiva così Alessandro Ricci, nella nota che chiude I cavalli del nemico. L’understatement gli era abituale, ma ben sapeva che il suo “dilettantismo” era di una forma tutta speciale, era un modo distaccato e, insieme, sommamente aperto all’esperienza (e ai suoi rischi), di trattare la materia della poesia e della conoscenza. Prima della scoperta del male che l’avrebbe ucciso, Alessandro Ricci s’era convinto a lavorare per la pubblicazione del suo terzo libro. Poi, la malattia lo disamorò anche della poesia, che gli aveva dato ben poche soddisfazioni, e di quel libro, traguardo ormai tanto irraggiungibile quanto inutile, lasciando a me il compito di prepararlo per la stampa. I cavalli del nemico sarebbe uscito postumo, a due mesi dalla morte, quindici anni dopo Indagini sul crollo. Prima di quello, infatti, Alessandro aveva pubblicato solo due altri libri. Il primo, Le segnalazioni mediante i fuochi, con prefazione di Roberto Pazzi, era uscito nel 1985. Libro di vigorosa vitalità e novità, ebbe qualche lusinghiera recensione, qualche generico apprezzamento, ma nessuno, nonostante la sensibile prefazione di Pazzi, che parlava di “eleganza stilistica e acutezza simbolica”, nessuno ne avvertì l’originalità e la profondità. Aveva un’ideale, ma non tipografica, divisione in due parti: la prima era costituita da “pitture antiche del moderno” (Roberto Pazzi), poesie storiche del mito classico, del mondo ideale in cui amicizia, dovere e amore regolavano la vita “oltre il ritmo dei voli e dei presagi” (Luigi Amendola) e terminava con il testo eponimo. Popolano la seconda parte del libro le persone amiche e care, gli amori, le età finite, i rimpianti. L’ultima grande poesia di questa parte, e del libro (suo ideale terzo tempo), è La confessione, una straordinaria sequenza di frammenti autobiografici di varia lunghezza, costruita con grande maestria stilistica, e nella quale, come scrive Pazzi, “la sofferenza brucia anche qualsiasi residuo letterario”.  Il secondo libro, Indagini sul crollo (di nuovo con prefazione di Roberto Pazzi), ricuperava molto di quel che era stato escluso dall’altro (anche per necessità editoriali di snellezza) e aggiungeva il nuovo; forse più diseguale e composito, accoglieva però alcune delle poesie più belle di Ricci, né vi mancavano i motivi “della rievocazione degli io passati, conviventi in noi in quella provvisoria media di tanti io che è il nostro essere di oggi” (ancora Pazzi). La sua comparsa, nel 1989, non meritò nemmeno quegli “agrodolci gesti di tolleranza”, come li chiamava Fortini, che s’era guadagnato il primo. Ogni poesia cerca un interlocutore, ma se il poeta viene riconosciuto solo al momento dell’incontro col suo lettore, Alessandro Ricci sembrava non esistere come poeta. «Ci sono poeti sottovalutati, o addirittura ignorati dai critici e – quel che è più grave – dagli altri poeti, che, invece, per sensibilità, se non per intelligenza, dovrebbero capire; poeti che non vanno alla ribalta per gridare “sono qui, ci sono anch’io!”; poeti che accettano l’indifferenza in cui vivono come si accetta un’emicrania […]», aveva scritto, non immaginando di parlare di se stesso. Dopo la delusione procuratagli da Indagini sul crollo, non pubblicò più che qualche poesia su rivista, se richiesto. «Non ho altro pubblico che cari amici, sparsi qua e là come certi esuli nei miei versi», scriveva. Non aveva rapporti con le consorterie letterarie, che anche a Roma esistevano ed esistono; ma con gli amici amava chiacchierare e discutere, anche di poesia. «Erano chiacchiere», scrive in una lettera, «di questo genere che una dozzina di anni fa, seduti in un bar vicino a piazza Pio XI, si facevano, tra sorrisi dispettosamente auto ironici, di volta in volta con Luca Canali, Checco Dalessandro, Beppe Salvia». Non pensò mai di offrire la propria opera a quelli che al tempo erano ancora considerati i grandi editori di poesia, né ad altri. Dopo una prima volta d’intollerabile ansia, neanche accettò più di esporsi e di esibirsi davanti ad un pubblico, sia pur ristretto, in una delle allora abituali letture di poesie, che giudicava un inutile narcisismo. In un breve abbozzo di autopresentazione scriveva: «I concerti di poesia, le genuflessioncelle d’uso agli addetti ai lavori, le stucchevoli selezioni di testi nei collegi redazionali, dieci anni di spettacolari onnipresenze di vati seducenti mi hanno stancato». Alla presentazione, a Bologna, del secondo numero della rivista di Roberto Roversi “Le porte”, dove eravamo ospitati insieme, fuggì dalla sala prima che chiamassero il suo nome. Ma nonostante il suo riserbo, diviso fra orgoglio e umiltà, non era inconsapevole del suo valore come poeta. Poco fece, o poté fare, però, perché tale riconoscimento venisse attestato. La sua poesia scomparve come quei fiumi carsici che s’inabissano e scorrono a lungo ignorati, per riaffiorare in qualche altro luogo, in qualche altro tempo. Riemerse quindici anni dopo con I cavalli del nemico, che, nonostante l’impegno di chi scrive e di altri pochissimi amici, pronti a promuoverlo e a farlo conoscere, passò anch’esso inosservato, ignorato, incompreso. Nel 2007, curai un libriccino, L’arpa romana, di ventuno brevi poesie scelte fra i tanti inediti rimasti, privilegiando certe zone franche ai confini della sua poesia più compiuta: meritò solo l’attenzione di un lettore avvertito e sensibile come il poeta Giancarlo Pontiggia.  Del 2014, nel decimo anniversario della morte, è l’uscita di un altro sostanzioso gruppo d’inediti, raccolti in un libro intitolato L’editto finale, dove si ritrovano i grandi temi della sua poesia: la disperata vitalità, i furiosi innamoramenti, gli amori brucianti e infelici, il corteggiamento delle donne e della morte, le “discese del tempo” nelle pieghe della storia, gli scandagli impietosi del cuore e della propria vicenda esistenziale, le confessioni e le conversazioni, i tanti volti di Roma e le passeggiate nelle sue strade col fantasma del padre. Di nuovo, scarsi riscontri. Del 2015 infine è la pubblicazione di una bell’antologia delle sue poesie storiche col titolo I colloqui di Elpinti, accompagnata da un interessante saggio di un entusiasta Stefano AgostiL’antico e il tempo. In esso, Agosti riconosce alla poesia di Alessandro Ricci “una potenza di rappresentazione di cui personalmente, – dice – non riesco a ricordare altri esempi nel Novecento italiano”. Gli esiti di essa, spiega, sono “fra i più impressionanti del secondo Novecento, oltre che inconsueti rispetto alla nostra tradizione. Ma non”, aggiunge, “rispetto a certi grandi esempi della poesia europea, sempre del secolo appena concluso” citando subito dopo nomi non di poco conto come quelli di Housman, Kavafis e Yeats; o, appena più indietro, il Pascoli dei Conviviali. Ed ora, finalmente, vede la luce la raccolta completa delle sue poesie edite, arricchita da una dozzina di testi inediti, ancora ritrovati fra le sue carte e non indegni di comparire fra le sue cose migliori. Questo grande libro riepilogativo, con l’introduzione sensibile e accurata del giovane poeta e critico Michele Ortore e con una mia testimonianza, darà, a chi ha amato la poesia di Ricci, la possibilità di avere raccolta insieme tutta la sua opera; per chi non la conosce, o la conosce solo parzialmente (i primi due libri sono introvabili da decenni), sarà un prezioso strumento di studio e di approfondimento. Una poesia nata matura e grande, quella di Ricci, ma fino ad ora praticamente ignorata… Eppure, come dimostra il saggio di Agosti, è a tal punto alta che viene spontaneo pensare ad essa come a un falco immobile sulle nostre teste, ma invisibile a chi, per pigrizia, disinteresse o cinismo, non alza mai gli occhi al cielo. Perfino coloro che – vivo il poeta – ebbero la ventura di conoscerla e apprezzarla fecero poco, pochissimo perché venisse riconosciuta. Più che un’accusa è l’amara constatazione dei fatti – applicabile ad Alessandro Ricci come ad altri poeti ignorati in vita (e non sembri irriverente fare qui i nomi dell’inglese Hopkins e del già ricordato Kavafis). “Come un recluso, egli non fu mai riconosciuto durante la sua vita”, scrive l’oscuro estensore della pagina di Kavafis su Wikipedia. Nessuna definizione è più vera di questa per Alessandro Ricci.

Francesco Dalessandro

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