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POESIA E PENSIERO IN MINORE

POESIA E PENSIERO IN MINORE

Renato Minore, O caro pensiero (Aragno Editore). Nella serie di scritti che hanno accompagnato i libri di poesia di Minore, va ricordato quello di Cesare De Michelis che, introducendo Non ne so più di prima, scriveva: «i versi di Renato Minore emergono dal magma indistinto e confuso dell’esistenza e dell’esperienza, raccogliendo parole e significati, immagini ed emozioni, per disporli e comporli in un ordine che immediatamente ricorda l’organica struttura del racconto – “una vita riflessa quasi il romanzo / … della mia vita” – e ne ha esplicita e manifesta nostalgia, eppure non ha né la pretesa, né l’intenzione di riconquistarla». Si tratta di un’osservazione che può variamente essere estesa agli altri libri di Minore, per tutto ciò che viene detto; ed è stato Giuseppe Pontiggia, sempre per Nella notte impenetrabile, a riprenderne alcuni spunti: «in Minore la presenza dei classici […] ha il potere di intensificare un’inquietudine e un disagio esistenziali, proiettandoli su altri sfondi e altre esperienze. È come se il presente acquistasse ulteriore durata dalla percezione dei suoi echi retrospettivi». Ma soprattutto va sottolineato l’accenno all’«organica struttura del racconto» della quale scriveva De Michelis, che Giovanni Raboni (per Non ne so più di prima) intendeva come «storia non progressiva e rettilinea, bensì (secondo una tecnica “narrativa” alquanto sofisticata) condotta per improvvisi affondi e risalite, anticipazioni e flashback». E ancora Walter Pedullà, per Le bugie dei poeti (nell’«Almanacco dello Specchio» del 1989, poi nel volume dallo stesso titolo) esordiva: «Nei versi di Renato Minore c’è sempre un racconto che aspetta di essere avviato. C’è un’attesa, la promessa di un evento che potrà essere rinviato ma non cancellato. Il destino arriva sotto la spinta di un nonnulla, una parola più dinamica dell’oggetto a cui si riferisce»; questo racconto, per Pedullà, procede per antitesi: necessità e inutile, superficie e profondità, pesantezza e leggerezza, ripetizione e differenza, silenzio e clamore. La dinamica di questi racconti si articola varia, vola e cade: «il “racconto” di Minore ha le vertigini. Come si fa a stare immobili sul ciglio di un infernale burrone che promette un destino sempre identico? Non rimane che tuffarsi nelle acrobatiche e “sociologiche” peripezie del “quotidiano”, nella nera cronaca, nera, anzi nerissima, in cui ci si specchia per vivere e per morire. Basta una piuma ed è il tracollo». Ma il quotidiano che cosa è? Se Pontiggia aveva definito Minore «un visionario del semplice e dell’elementare», Ruggero Guarini preferiva precisare: «Minore è un visionario. Ma, più che del semplice e dell’elementare, è un visionario del piccolo, E il piccolo, si sa, può essere piuttosto complicato», tanto complicato da finire in un buio; eppure «il buio della materia, la notte impenetrabile, il silenzio interminabile, sovrumano dell’infinito contiene, come un caleidoscopio, un’infinità di forme meravigliose», ha scritto Claudio Damiani per Nella notte impenetrabile. Le coordinate sono queste, e aiutano a capire da dove Minore riprenda adesso il suo discorso. Non sempre la poesia chiama il pensiero, ma in questo nuovo libro in versi (il quinto) di Minore il vocativo del titolo non lascia margini al dubbio (magari solo in apparenza, se i tratti di troppa evidenza in poesia alludono talvolta al loro contrario): O caro pensiero, dunque. E già ci sarebbe da chiedersi se l’aggettivo non abbia una doppia valenza: il pensiero è «caro» proprio nell’accezione leopardiana (ricordiamo di passaggio che del recanatese Minore è stato partecipe biografo), caro come il colle, come la beltà, la luna, lo sguardo e tante altre cose, soprattutto gli inganni e l’immaginare; ma in un tempo – il nostro, e non da poco tratto – in cui le cose si definiscono per il prezzo, «caro» vorrà dire anche che il pensiero è costoso, nel senso che grava nei moti dell’anima e nei ricettacoli della memoria, diventando perfino un inciampo nello stare al mondo. Se si guarda bene, le due accezioni finiscono col sovrapporsi, così che «caro» riguarda il manifestarsi del pensiero quando connotato dagli affetti. Percorrendo la prima sezione del libro, «Infanzia e dintorni», si hanno sotto gli occhi gli effetti di questa sovrapposizione. La psicoanalisi ha insegnato che, attivando il ricordo, non si ricostruisce il passato, perché le storie terapeutiche (e la storia non diversamente) lo inventano e, propriamente, lo costruiscono ogni volta che lo raccontano (c’è spesso un tratto narrativo in Minore, magari ellittico, come di racconti appena accennati e poi condensati). Credo che la poesia iniziale, Non c’è pioggia che valga, stia lì a mettere all’attenzione di chi legge delle indicazioni di lettura: «Non c’è ricordo / che valga quel ricordo» è un attorcigliarsi del presente sul passato e del passato sul presente. Di ciò abbiamo anche un’altra prova, subito dopo l’ingresso: L’occhio di vetro è un ricordo che prende forma in venti versi che costituiscono un unico periodo nel quale è abolita ogni punteggiatura: ne risulta un andirivieni sintattico che è il versante formale dell’attorcigliamento che si diceva. E visto che al lato psichico si è accennato, a che cosa alludono, nell’adulto che scrive, le situazioni del bambino di cui si scrive in La maestra e in La recita? Il passato agisce in noi, che siamo ciò che siamo in forza di quel passato, del suo ritornare, del suo fantasma: il perturbante. Ma siamo questo? Così siamo? O, come nel concetto di tempo di quel grande pensatore, siamo inesistenze, sospesi tra un passato che ci invade ma non c’è più e un futuro che non c’è ancora? «E fatico a dirmi che non ci sei» potrebbe essere non solo un’osservazione rivolta al padre in Dittico paterno, ma a se stesso, pronunciata da un io che si sdoppia e considera l’altra metà che lo costituisce. Lo stesso induce a dire (Mio padre in sogno) «Tu sei solo quello che riesco a pensarti»; tenui remedia i diminutivi di Il dono e il riso dove, benché «in un’ansia leggerina», si affaccia almeno l’ipotesi di un futuro, di un ricordo ancora da avere, ancora da vivere prima che ricordo diventi. Si vive per ricordare la vita e per elaborare il ricordo in pensiero. La sezione che dà titolo all’intero libro specifica il ricordo prima in un micro-canzoniere (Vento e filo d’amore), poi, nel componimento-titolo, attraverso una almeno doppia voce declinata in una suite dove, sotto la tersità del dettato, si possono vedere convergere riferimenti antichi e nuovi: da Leopardi, ancora («O caro pensiero / d’una notte senza luna»), a Kikuo Takano, del quale ora non è molto Minore ha curato la silloge Il senso del cielo: e più che una testimonianza della vicinanza a cose giapponesi sono i Tanka di «Mi serve tempo» dove, anche, la poesia che titola la sezione ricorda una montagna di Hokusai. «O caro pensiero» è una sezione breve e densa, cuore pulsante del libro, suo motore, che annuncia l’esattezza da referto della sezione seguente, «Sapere e patimenti». L’introduzione a un nuovo libro poetico non deve essere troppo analitica, ma nemmeno si può rinunciare a segnalare l’irruzione della cronaca e della storia nello svolgimento di una vicenda che ha i tratti del pudore e della riservatezza: alla lettera (come dice il titolo di una poesia) una specie di Tsunami che induce a risagomare l’io, pensiero e ricordi compresi: «Ciascuno ha la sua mano / di dadi già lanciati / deve seguire solo quelli»; ma anche, a complemento e controcanto, subito a seguire (Il moto e il mondo) «Nella pura astrazione, aveva studiato / il moto delle palle di cannone / “se poi non si muovono così, peggio per loro”». Così come, nella serie «Stare a vedere ciò che accadde», la teoria di stelle indica vie che non sono vie e che se lo sono si interrompono, e che se non si interrompono portano a un pericolo: ma lì c’è salvezza o un’ipotesi di salvezza, accompagnata alla constatazione che «Forse il mondo / se non finisce / da qualche parte / ai bordi del pensiero / …» e così via; ma segna un margine e un varco quella porta che appare nella sezione dal titolo che oscilla, incredibilmente ma non troppo, tra Sartre e Fritz Lang, La porta chiusa. Perciò il libro si può leggere anche dalla fine, dai «Neuroni a specchio» (dove appare Lacan) all’indietro. A specchio, appunto, nella «riflessione» del pensiero sul ricordo.

Raffaele Manica

Prefazione

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