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POESIA E ALTERITÀ IN CATERINA DAVINIO

POESIA E ALTERITÀ IN CATERINA DAVINIO

Gli alieni siamo noi. E soprattutto quando, nei panni del turista, esploriamo l’altrove come per impossessarcene al più presto e di corsa catturarne le dovute prede di souvenir, sbarcando freschi freschi come da una potente astronave, ma restando inevitabilmente “intrusi”, “estranei” e “illegittimi” in un contesto che non ci prevede e che la vacanza non basta ad approcciare. In questo Alieni in safari / Aliens on Safari (Robin), Caterina Davinio pone con forza questo problema: il problema del rapporto con l’altro. Il pianeta si è rimpicciolito e i collegamenti aerei possono spostarci rapidamente da un capo all’altro, da un continente all’altro con irrisoria facilità e a costi contenuti. Tuttavia, la nostra capacità di rapporto con l’alterità non è affatto migliorata, il turista cerca solo la conferma di un’immagine già ricevuta preconfezionata nel suo “pacchetto”, tutto compreso. Né la poesia ci garantisce di una autentica partenza e di un viaggio senza remore, basti pensare a cosa è già successo ad un poetico tour “verso la cuna del mondo”, quello di Gozzano, che si è rivelato poi in gran parte un trucco sedentario. Forse non è male che, come qui, la poesia si faccia accompagnare dalla fotografia, come a garanzia di prova: è vero che la foto è proprio ciò di cui va a caccia il turista e che riporta a casa come conquista dimostrativa, tuttavia l’obiettivo fotografico è in grado di emendarsi di tale funzione rassicurante e suppletiva se si mette in tensione per cogliere quei segni che, senza essere attesi, provengono dall’altrove. La poesia, dal canto suo, dovrà fare qualche esercizio di “depurazione”, lasciar stare i consueti atteggiamenti liricizzanti, modificare i propri connotati abituali, in questo caso sperimentando il restringimento del verso, che si contrae tendendo al verso nominale e producendo una scrittura battente, cumulativa, cantilenante (ben lontana dalla scarnificazione ungarettiana, cui pure potrebbe assomigliare). Non nuova allo straniamento della fantascienza, che ha utilizzato anche in alcune sue performances, Caterina Davinio adotta anche qui la prospettiva dell’astronauta spaziale alla ricerca di pianeti  sconosciuti e di popolazioni aliene, unendo quindi la struttura del diario di viaggio, quello che potremmo chiamare il livello odeporico (rintracciabile soprattutto nei titoli dei componimenti, dove si individuano le tappe di un percorso effettivamente compiuto), con il livello proiettivofantastico della prospettiva planetaria. Ma la vera questione non è tanto nel rapporto tra realtà e fantasia, che pure si intrecciano con grande piacere ed esiti inconsueti; è piuttosto nel modo in cui è visto l’altrove. La scienza che recentemente i comparatisti vanno praticando, l’imagologia, ci avverte di stare molto attenti alle immagini dell’altro, a non passare facilmente dal disprezzo caricaturale all’eccessiva santificazione. Occorre evitare il riformarsi del mito per dritto o per rovescio; occorre, insomma, che l’alterità non venga gestita con semplice tolleranza (del tipo: c’è posto anche per loro, pazienza “se non portano i calzoni”, come disse Montaigne), ma che funzioni dialetticamente ai fini una critica, radicale e crudele della nostra stessa parte. Quali strumenti ci consegna l’alterità e quali spunti ci offre per una adeguata autocritica? Quali segni di polemica induce? Qui c’è da calcolare la distanza che emerge rispetto al centro del sistema, e lo vediamo nella ripulsa delle «sale del nero potere», nell’imperativo a «detestare chi calpesta d’arroganza / Le tue pietre miliari». E si potrà verificare come si arrivi a compiere l’intero giro, fino allo scarto antiantropocentrico, alla incriminazione dell’«uomo / Quel parassita vincente / Quel batterio tenace». Lo si noterà soprattutto in quei punti in cui lo sguardo oltrepassa il riflesso delle civiltà “diverse” e si va a connettere con lo sguardo animale, toccando quindi il livello più problematico della comunicazione, quando non esiste alcun codice (e l’altro è davvero affatto alieno), si tratti di un piccione, di una elefantessa o di un’iguana – cercando in tal modo un contatto più ampio, con la materia organica in genere. L’India, l’Africa: il lettore saprà ricomporre la mappa e gli itinerari. E vedrà che i «venti dell’equatore» riconducono all’origine, e en passant anche a quella personale dei luoghi del vissuto. Ma quello che conta davvero, però, è la trasformazione della mente. L’altrove – tinto spesso di una strana, improbabile, tonalità rosa – chiede di essere colto utilizzando soprattutto l’ultimo dei sensi, il più animale, l’olfatto. Gli odori dominano; e nello stesso tempo domina la folla, lo sperdimento dell’individuo (qui non a caso il soggetto grammaticale è tendenzialmente plurale) nella ressa impersonale e nei suoi movimenti danzanti e fluttuanti. La chiave per la lettura di questo libro è, io credo, il dionisismo. Per paradosso (ma non tanto) i luoghi della distopia, i continenti abbandonati dalla cabina di regia della globalizzazione, si rivelano i più attivi e vitali. C’è “luce” in questo “inferno”, dunque. E il movimento collettivo raggiunge l’apice nel «brulichio festoso». Di esso la poesia si nutre attraverso la sonorità, la sarabanda di “sciabordìo”, “crepitìo”, “tramestìo”, “strepito” e via “stridobattendo”, per spruzzi e sprazzi, magari con il compendio di allegre (palazzeschiane?) onomatopee. Da tutto ciò risulta «La mente arresa / come uno specchio / concavo, / ospitale / e riflettente». Mente arresa, però, nel senso che non si protegge più con le difese dell’identità corazzata predeterminata; non perché si arrenda all’omologazione, al contrario, perché il contatto con l’alterità serve a liberare l’altro che è in noi (il «je est un autre» di Rimbaud), e quindi a misurarsi con l’espansione utopica dell’immaginario.

Francesco Muzzioli

Prefazione

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