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DE LIBERO UN CLASSICO MODERNO

DE LIBERO UN CLASSICO MODERNO

Autore di tre libri di racconti, di due romanzi, di scritti d’arte, di prose bizzarre ed eleganti, Libero De Libero è stato oggetto della maggior valutazione da parte della critica come poeta, fin dalle prime prove (Alberto Savinio lo definisce: “Un Rimbaud nostro e che il demone ha lasciato in pace. Ma uguale a lui per la dolcezza di nostalgie, per alte meditazioni, per lunghezza di sguardo”, nel 1936). Valutando nell’insieme le raccolte Testa (1938), Eclisse (1940), Il libro del forestiero (1945), Banchetto (1949), Ascolta la Ciociaria (1953), Di brace in brace (1971, Premio Viareggio), Scempio e lusinga (1973), Circostanze (1976), riunite in Le Poesie (Bulzoni), si può dire che la sua poesia, pur essendosi ancorata in minima parte all’ermetismo e pur essendosi sostanziata di un certo linguaggio dell’ermetismo, parte da più lontano. Non tanto nel senso che viveva degli umori che caratterizzavano l’atmosfera culturale in cui la stessa poetica così detta ermetica si formò, quanto piuttosto nel senso che si fondava e si fonda su un nucleo per così dire astorico, originale, rimasto come sua peculiarità. È vero infatti che il modo d’essere che fu della poesia ermetica si sposa, in De Libero, con un retroscena di “naturalità” primigenia, legata alla terra d’origine, Fondi, e alla sua  potente conformazione geologica, alle montagne di roccia scabra che la circondano, anche se la pietra “megalitica” diventa in De Libero la Venere di Milo o l’Apollo di Prassitele. Rispetto a questo nucleo originale, che resta poi l’unica e vera dimensione in cui il poeta si è identificato, tutto l’armamentario ermetico, per una volontaria raffinata presa di distanze, serviva da supporto, da lente di rimpicciolimento (e non di ingrandimento), da filtro di decantazione. Il fatto è che questa poesia nasce da un nucleo primigenio sostanzialmente incontaminato: quell’amore per la cantabilità della lingua, che impone toni, livelli, timbri della più limpida vocazione. Una vocazione che non esclude affatto il ricalco letterario sia della tradizione popolare che di quella colta. C’è, dei poeti cantastorie della sua terra, il contrasto di luci e di ombre fonde, di gentilezza e di realismo forte; e, dei modelli più alti, il frutto di una cultura che consente il criterio mediato, adottato per ottenere certi esiti di messa in evidenza. In area di piena contemporaneità, comunque, e nel segno di una autonomia originale. In Libero De Libero, un’ironia sottile, quasi rarefatta, sorregge alcuni componimenti, dove poesia è dichiarazione in semi negativo di una limpidezza del reale dall’uomo quasi sempre elusa; oppure un afflato, che non avrei paura a definire “mistico”, anima quelli in cui il senso della vita (nell’accezione di quella “naturalità” di cui si diceva) è in grado di tradursi in evidenza di illuminazione da più sottili schermi. La vita è nella vita, ci dice il poeta, come capacità di dichiararsi da parte degli esseri che respirano con una forza che è una forza formidabile, capace di sopravanzare tutto. Perfino l’abisso di vuoto sul quale la vita riposa. Una vita che è in grado di abbarbicarsi proprio sull’orlo dell’abisso e lì attecchire, mettere radici e produrre lo slancio in avanti. Stilisticamente, il linguaggio è rapportato alla misura alta: sceglie le strutture sintattiche più fini, si compone del lessico più centellinato, si accorda sui ritmi più melodici, in chiave fortemente lirica. E sono, poi, tutti indizi del fascino della poesia pura che non ha mai abbandonato De Libero. L’idea di poesia pura che Libero De Libero aveva era conseguenza coerente di una poetica della parola quale potevano aver testimoniato un Mallarmé o un Valéry, in una condizione ancora simbolista. Una poesia che continua a tracciare i segni di quel tanto di più profondo e misterioso che si cela al di sotto del mondo fenomenico (offrendo, ancora in semi negativo, solo l’apparenza del maggiormente conoscibile). Surreale lo definiva Gianfranco Contini. A differenza di altri suoi compagni di strada, Libero De Libero non cede comunque a quel ridimensionamento, a quell’abbassamento di tono, a quell’inversione di tendenza rispetto all’ermetismo, messi in moto dai disastri della guerra e spinti verso il neorealismo o a più o meno aperte dichiarazioni di impegno. L’impegno, per De Libero, è coerentemente l’autenticità della propria vocazione e del retroterra culturale da cui proviene, compresa la tradizione popolare di cui si diceva, da lui definita in più di un’occasione limpida, rastremata, raffinata. Nei margini tematici e stilistici che ho indicato si colloca anche l’ultima raccolta Circostanze, che comprende nelle tre sezioni “Chi va là?”, “Passaporto” e “Girotondo”, i versi scritti negli anni 1971-1975. E questo vale anche per le poesie successive uscite in rivista o pubblicate postume nell’antologia comparsa negli Oscar. Tuttavia, a ben guardare, non è che la poesia di De Libero sia rimasta immobile sulle posizioni già acquisite. Si sono operati degli spostamenti che, sia pur minimi, hanno determinato soluzioni in parte diverse. Innanzi tutto, c’è il parziale svelamento, dal cifrario ambiguo che la caratterizzava, di una zona tanto importante della poesia di De Libero che è quella dell’amore efebico. Nel senso, intendo, che ciò che di vago e indefinito avvolgeva figure e situazioni si è precisato nei contorni, staccandosi da fondali e pareti. Ma non è l’unica novità, legata questa ai tempi che portavano a una maggiore tolleranza e dunque a un’apertura rispetto alla passione, anche se l’accensione del desiderio in De Libero è sempre placata nella contemplazione, cioè in una limpidezza classicheggiante. Quello che si muove, nelle prove ultime di De Libero, è il livello stilistico, in cui si può misurare, da una parte, una minore rarefazione lessicale (il grado alto è rimasto soprattutto all’aggettivazione) e, dall’altra, una semplificazione del circuito sintattico (con la tendenza generalizzata al periodo unico). E gli esiti sono sequenze documentarie, con la predilezione per il catalogo, l’accumulo, la successione immobilizzata privata dell’azione del verbo: effetti personalissimi, originali e molto coinvolgenti. In ogni caso, lo ripeto, bisogna sottolineare che ancora una volta De Libero non ha tradito la sua ispirazione, anche a rischio di un’ossessione stilistica che è pur sempre, d’altra parte, garanzia di un’esperienza originale e inimitabile. Libero De Libero è consapevole fino in fondo, particolare non secondario, in quello che fa. La situazione poetica che ha continuato a far pullulare fino alla fine dai suoi versi è quella di una intempestività alla quale il poeta ha voluto legare la sua avventura di scrittore, indipendentemente da qualsiasi sviluppo o involuzione vedesse e riconoscesse intorno a sé. Niente scelte di comodo e di opportunità, nessuna forzatura per ottenere approvazione, nessuna adesione alle mode e ai maestri à la page. L’intempestività, ripeteva De Libero, è la garanzia dell’autenticità.

Paolo Ruffilli

Il Resto del Carlino

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