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FRANCO LOI E IL DIALETTO

FRANCO LOI E IL DIALETTO

Secondo Franco Loi, il grande avvento della poesia in dialetto degli ultimi anni si comprende meglio se si accantona per un momento l’immagine storica di un mondo in progresso e si riascolta la lezione antica che vuole il mondo come decadenza e perdita e la lotta degli uomini contro la decadenza e la violenza per la conservazione dei valori. Gli stretti legami tra una filosofia del “paradiso perduto” o della “cacciata” e il cantare poetico che in sé presuppone la nostalgia e la memoria sono facilmente rilevabili, sempre secondo Loi, se appena si pensa all’infanzia e alla sua irripetibile pienezza e forza evocativa nella vita di ogni uomo e di ogni popolo. Il dialetto, erede delle tradizioni orali di una gens, è (particolarmente in Italia) più della lingua nazionale, formatasi dal perdurare di una tradizione scritta tra le classi egemoni, idoneo a farsi tramite del sopravvivere nell’uomo di quella visione antica e di quei nessi perduti. La funzione del dialetto, da questo punto di vista – pensiamo ai poeti che scrivono in friulano, romagnolo, lucano o calabrese – può essere rivoluzionaria, se si considera poi la situazione di depersonalizzazione in cui vive la nostra società dominata dalla presenza sempre più esclusiva del computer e del telefonino, attraversata da gerghi minimali che in video e sul display sono lo specchio dell’impoverimento della lingua. Ripenso a queste considerazioni sfogliando il volume delle poesie scelte di Franco Loi Aria de la memoria (Einaudi), un’antologia personale. Non per niente, infatti, la vicenda poetica di Loi è esemplare di quella crescita per cui il dialetto è tornato a farsi lingua “totale” della poesia, abbandonando cioè gli aspetti “coloristici” o l’uso alternativo rispetto all’italiano. L’esperienza di poesia dialettale di Franco Loi è portante e decisiva nella produzione in versi del nostro paese e questa antologia ne dà conto in modo a dir poco straordinario. Nella ricomposizione di un tragitto complessivo che da I cart del 1973, passando attraverso Strolegh (1975) Teater (1978) e L’Angel (1981), arriva a Memoria (1991) Umber (1992) e Isman (2002). Di famiglia sarda e nato a Genova nel 1930, Franco Loi vive a Milano da sempre e ne ha adottato il dialetto.  Per quanto, occorre dire che il linguaggio della sua poesia nasce dalla mescolanza di elementi linguistici di varia natura (gerghi, idioletti), d’aria proletaria o contadina spesso reinventati per esigenze espressive proprie. Insomma in una miscela personalissima che testimonia, oltre tutto, della natura “sperimentale” e innovativa del suo autore. Tempo fa, nella sua famosa antologia della poesia italiana contemporanea, Pier Vincenzo Mengaldo riconosceva in Loi “la personalità poetica più potente degli ultimi anni” e l’indicazione critica regge al confronto con ciò che si è fatto dopo e finora. La forza espressiva dei testi di Loi attinge energia molto in profondità, si direbbe addirittura alle radici stesse dell’esistenza. Oltre e attraverso le abitudini, gli oggetti, le convenzioni, gli anni e i mestieri di una vita ingombrata e oscurata da scorie e incrostazioni, il filo del pensiero, rifuggendo da ogni astrazione, si incarna appunto nel flusso dell’esistenza, nei gesti, nelle scelte, negli incontri e nei rapporti, di cui la poesia si fa registrazione per mezzo della lingua. In Loi, la gioia di vivere trascolora ogni volta, più o meno di colpo, nella malinconia. Ma sempre si stacca, sul fondale della scena, il profilo delle cose durevoli, delle presenze che si rinnovano e continuano, il senso di una “gente” sempre viva e destinata a sopravvivere come realtà profondamente culturale.

Paolo Ruffilli

Il Resto del Carlino

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