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IL DOMINIO DELLA PAROLA NELLA POESIA DI ANDREA ZANZOTTO

IL DOMINIO DELLA PAROLA NELLA POESIA DI ANDREA ZANZOTTO

Ha detto bene Stefano Agosti nell’inquadrare la natura particolarissima della poesia di Andrea Zanzotto, che bisogna valutare in tutta la sua accentuazione il concetto di “esperienza verbale”. Nel senso che, nella vicenda del poeta di Pieve di Soligo, il linguaggio non solo si pone al centro dell’esperienza del mondo, ma diventa addirittura costitutivo del mondo nell’intera sua produzione: Tutte le poesie (Mondadori). Certo occorre subito precisare che, affrontando lo straniamento tipico della realtà esistenziale contemporanea, Zanzotto si consegna alla nevrosi del linguaggio e, a decidere della sua poesia, è la parola “nel vuoto”, la parola che “sfonda” e guida il componimento risalendo da profondità oscure, dall’inconscio di freudiana memoria. In questo senso, della ricchezza esorbitante di un mondo interiore impossibilitato alla chiarezza e alla normalità, si può dire che la poesia di Andrea Zanzotto non abbia riscontri paragonabili, almeno in Italia, solitaria e inaccessibile, quasi una sorta di Nautilus in viaggio negli abissi della psiche. La vicenda poetica di Zanzotto, movendo da quella condizione pura esistenziale della stagione post ermetica (Dietro il paesaggio è del 1951), è andata poi configurandosi nel tempo come volontà e bisogno di superare una situazione letteraria di stasi.  La sua poesia, facendosi veicolo sempre più consapevole e “scientifico” di conoscenza, ha adottato lo spazio del retroscena. L’intelligenza, scegliendo il linguaggio come strumento operativo, ha lasciato scivolare in secondo piano l’aspetto della comunicazione e ha concentrato la sua forza nella rivelazione attraverso la “pronuncia” della parola. Una parola che aggancia e trascina dal retroscena brandelli, filamenti, frange, di una realtà insieme mentale e fisica, sommersa, galleggiante appena oltre la crosta del nostro corpo, dei nostri visceri. È la posizione di Zanzotto, a partire dalla raccolta La Beltà, del 1968. E, secondo Agosti, è il punto più profondo toccato da Zanzotto nel suo percorso poetico. Un punto conclusivo, perché il poeta vi ha raggiunto “verità” divenute un’acquisizione solida e ferma per le successive operazioni. Il poeta Zanzotto di lì in poi si fa interprete di un’analisi biochimica sul linguaggio, condotta con l’intenzione di sondare il campo umano del reale ben oltre le apparenze, manifeste o no, secondo misure che però, nonostante tutto, restano esistenziali e partecipative. Non si potrà, nella poesia di Andrea Zanzotto, mai sottovalutare la portata dell’intelligenza, sia pure nella considerazione che molto in ogni caso sfugge alla consapevolezza Ma la cultura stratificata e la navigata conoscenza degli strumenti sono elementi fondamentali, nella vicenda. In generale per tutti i poeti, che sono razza sempre ipercolta, e a maggior ragione nel caso particolare. Basta andare a guardare il repertorio critico che Zanzotto è venuto, via via, materializzando nel suo cammino. Il “monumento” della sua scrittura critica ha evidenza nei volumi dei saggi come Fantasie di avvicinamento (1991) o Aure e disincanti del Novecento letterario (1994). La poesia di Andrea Zanzotto sembra, ogni volta, ripartire da zero, improntata ad una inesausta tensione emotiva e mentale. E la ragione è che affonda le proprie radici in un retroterra culturale stratificatissimo, entro il quale convivono in singolare e feconda simbiosi gli eventi laceranti della storia e quelli, non meno drammatici, del personale percorso conoscitivo. Operando da una posizione eccentrica ed isolata, che è sempre per la poesia occasione fondamentale di autenticità, Zanzotto è approdato fin da subito ai risultati significativi e originali delle sue prove.

Paolo Ruffilli

Il Resto del Carlino

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