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LO STADIO SELVAGGIO DELLA PAROLA IN RUFFILLI

LO STADIO SELVAGGIO DELLA PAROLA IN RUFFILLI

L’orgasmo, ha scritto in tempi andati Paolo Ruffilli citando Pascal, è come uno starnuto. Così si era messo senza tergiversazioni dalla parte dell’ironia. E scantonava dal tema erotico con il suo metronomo cantante e irrisorio, distraendosi con gli sfondi e le situazioni di contorno (il cattivo gusto dell’arredamento della camera da letto, la luce fioca e triste di una lampada del comodino, il crepitare del parquet al movimento degli amanti clandestini, l’incepparsi della lampo…) o dissolvendo l’altro in “oggetto delirato” dell’amore, personaggio assente o “figurato”, immaginato come non è. In Affari di cuore (Einaudi Editore) per la prima volta Ruffilli dilata il momento in cui “l’eterna guerra di posizione” degli amanti diventa battaglia aperta: “Sono tornato / per morderti e graffiarti”, “mi ami al punto di ingoiarmi”… a mordere, succhiare e digerire il corpo dell’altra; non tanto il “corpo amato” dell’immaginario, ma un corpo “vero e proprio” fatto di pelle e di carne, di umori e secrezioni. Il tema investe il ritmo di Ruffilli; non i contenuti, perché resiste in realtà l’impianto narrativo delle sue trascorse educazioni sentimentali (“e ti lamenti / … / che ti offro / i frutti della testa / ma che alla fine / non ti dono il cuore”): la totalità è solo “lo stato da me presunto / beato per intero”. Il furore di lei è alla fine ingannevole: “E via, confessa / che nell’amare me / ami te stessa”. Ma, a stravolgere la musicalità irridente di Piccola colazione, o le folate ritmiche del Diario di Normandia, qui soccorrono la violenza dello scontro suoni più netti e duri (“risputarmi fuori / munto e triturato”, “vuoi che ti prenda / e, più, / che ti violenti”, “siamo squartati / … / e nello squartamento…”), e rime interne e assonanze più aspre e arrotate. È come se l’amore carnale risultasse a Ruffilli incoercibile all’urbanità di sorvegliate filastrocche gonfie di pensiero, ed esplodesse infine una crudezza primitiva, uno stadio selvaggio della parola. Niente idealizzazioni e niente donne dello schermo: il soggetto ama il suo oggetto e non l’amore (si veda, per l’appunto, la poesia Furore), incontra la sua donna “reale”, con i suoi limiti e i suoi difetti, ben sapendo di averne lui stesso altrettanti. La contraddizione non solo viene accettata, ma è vissuta fino in fondo come risorsa impareggiabile della vita. E l’amore conosce la violenza e la crudeltà, sì, però anche le pieghe più tenere che resistono nello slancio passionale (“Respira piano, / lasciati entrare / poco alla volta / dentro di me…”, “…dentro il sorriso / che il sogno / ti ha lasciato. / È la gioia dell’amante / nell’amato”,  …ma non volevo spegnerlo / beato, restando / a cuocermi nel forno”), fino a registrarne la coscienza: “Non avevo mai provato / in vita mia / così tanta tenerezza / dentro la passione”). In un rispetto dell’altra che resiste anche dentro il riconoscimento dei torti subiti e in un’esperienza dell’amore che ignora finalmente la gelosia. Nel suo concedersi all’uso della norma, Ruffilli è altamente trasgressivo e riesce a dire, appunto normalmente, le cose più indicibili senza mai sottrarre dignità alle persone (si vedano, ad esempio massimo, poesie come Addosso, Pensiero, Atto estremo, Sorpresa, Istigazione…). Solo le rime con il loro solfeggio leggero tornano a suggerire una possibile, risorgente ironia e la distanza, portata non dalla sazietà, ma dall’implacabile intelletto. Tutto diventa musica e proprio per questo si riesce a pronunciare l’indicibile. Quella lieve musica dal ritmo sincopato, fatta anche o perfino di cocci e vetri rotti. Nel genere forse più rischioso, letterariamente parlando, Ruffilli vince la sua sfida in virtù di quelle qualità che già gli riconosceva nel 1977 Montale, indicandolo come solitario e originale nel suo percorso sghembo rispetto ai poeti del nostro Novecento, all’insegna del non dire proprio per esprimere di più: “Il modo di Ruffilli si affida a una specie di galleggiamento di vescicole, piccole bolle che guadagnano la superficie salendo in verticale su dal fondo. E queste bolle, nel loro minimo ingombro, nella loro rarefatta consistenza, riescono a rispecchiare la realtà nella sua interezza e complessità.” Frammenti di un insieme alluso e poi, in virtù della poesia, di colpo ricomposto in tutta la nettezza della sua sorprendente rivelazione, per immagini capaci di rendere il discorso dell’amore non solo possibile, ma straordinariamente nuovo e vincente anche in letteratura.

Daria Galateria

L’Immaginazione 2012

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