Lorenzo Calogero nasce nel 1910 nel piccolo centro di Melicuccà, in provincia di Reggio Calabria, dove muore nel 1961. Di formazione cattolica, segue la scena letteraria che si raccoglie intorno al “Frontespizio” di Pietro Bargellini e Carlo Betocchi, ai quali invia le prime poesie. Laureato in medicina, esercita la professione in diversi centri della Calabria in maniera discontinua, tormentato da turbe depressive che gli fanno tentare il suicidio. Le sue raccolte di poesia: 25 Poesie e Poco suono, confluite in Parole del Tempo (1956, Donzelli 2011), Ma questo… (1955), Come in dittici (prefazione di Leonardo Sinisgalli, 1956), Sogno più non ricordo e Quaderni di Villa Nuccia in Opere Poetiche (postumo, Lerici, 1962), Avaro nel tuo pensiero (Donzelli, 2014).

https://it.wikipedia.org/wiki/Lorenzo_Calogero

http://www.lorenzocalogero.it/

 

POESIE

Fuga di pensieri
Fuga di pensieri lontana.
Mi percuote un’onda fugace
dentro una dolcezza non vana
di ultimi pensieri non miei,
segreti neri non veri angosciosi.

Quanto ho disperso mi guarda,
mi grida o mi sgrida. Lontano
mi risveglia in un grido e mi guida
sopra una riva,
nei teneri tuoi occhi,
perduta fuori di mano.

Ho perduto ciò che non sapevo
e custodivo gelosamente, quando angeli stanchi
sulla cima mossa dormente degli alberi
fredda non odono, nel freddo velo
buio scarno che spira
nella mattina secca a ponente.

Vieti pensieri, rapidi occhi
voi passaste e viveste un’ora sola.
Un sordo brivido svapora
dai miei sentimenti
nei tenui tuoi teneri occhi
dormenti.

Poco suono
Di tanto rovinoso mare
poco suono giunge
al mio orecchio assorto
in ascoltazione dell’Eterno
che come un angelo passa.

Figure immaginarie
Figure immaginarie
che germina l’anima
per vederle partire
in un mare di sogno.

Siamo legati alla vita
da sottilissime vene
come ad un mare pauroso
che sempre abbuisce.

Ci levighiamo colla speranza sottile
di conoscere le cose a fondo,
di traghettare sulle nostre spalle
l’ombra della nostra morte
sull’altra riva

ed essere così
immutabili ed eterni
al livello desiderato.

Parto
Con passi lunghi e col ciglio aperto
faccio la scalinata grigia dei monti
per vedere nuovo bianchissimo orizzonte
come nel ciglio dell’anima s’e aperto.

L’immensità è quieta, dorme:
la trafugo dal dolore umano.
Sento la fuga dei rimpianti
vaticinare in fondo
nel chiuso d’una siepe.

Sono col piede chiuso alto sui monti.

Parto.

Panorami grandissimi
Panorami grandissimi
a perdita d’occhio si stendono,
s’aprono nuovi orizzonti,
si squarciano gole.
Noi non sappiamo parlare.
Dove siamo andati a cadere?
Nel centro alluvionale della terra?
L’occhio vacua da orizzonte a orizzonte
e si spaura.
Per questo siamo nati:
per vedere nuovo profondissimo orizzonte,
perché la nostra generazione
non vada dispersa
fra acini, fondi nebulosi,
mostri furiosi, i cavalloni
del mare.

Lottiamo sottoterra
e percepiamo.

Silenzio sacro
Dalla riva alta dei fiumi
parla una voce,
scandisce un silenzio sacro
come il primo urlo
dei popoli feroci.

Il lene vento parla.
Una fronda si muove.
Un bue lento
la bianca anca sommuove.

Immagine statuaria
che migra dai monti
sono.

Verso quale nuova riva?
In cerca di quali perduti beni?

Ciò che ho creato
in ordine leggendario
si trova.

Aspetterò
la bianca spetrata notte:
verso quali segreti
millenni addurrà.

Tutto è bianco e opaco.

Che non abbia a inaridire
la mia anima
come la cenere del greto,
come la nebbia irta de’ colli.

Dall’aere dei colli
viene fosca, grigia
parvenza di numi.

Verso quali beati destini
mi chiama?

L’opera
L’opera
non cade mai,
non si frantuma,
rimane eterna.
Gioiosa o mesta,
entusiasta e molteplice,
rimanendo immutata
ai colpi del tempo,
è testimone
di un tempo immortale.

La sua nuda fronte
rimane ferma, soda
sotto i raggi del sole che l’indora
fra i pollici fissi dell’universo.

Da essa a volte cadono scintille
che indorano la bruna chioma
dei fanciulli che vanno a scuola
svegliandoli dal letargo
nel primo entusiasmo.

Rimane fra me e te
Rimane fra me e te questa sera
un dialogo come questo angelo
a volte bruno in dormiveglia
sul fianco. Non ti domando
né questo o quello, né come
da materne lacrime si risveglia
di notte il tuo pianto.

Se i tormenti sono tristi,
l’edera non è mattina o si colora.
Si vela o duole una viola
e dondola nube odorosa
su l’orizzonte lucida di brina.
Ecco quanto di tanta vana speranza resta
o fugge rapida o semplicemente,
silentemente accade.
I carnosi veli, i velli di bruma,
le origini stellate assalgono l’aria,
le tumide vene delle vie le ore.

Non l’eco rimbalza
due volte sulle rocce, su questo
prato, ove sono rosse, e, di rosso
in rosso, è vano il pallido velluto
ora rosa ora smosso.

Non si parla né triste né lieto;
e presto o tardi, perché a fior di labbro
gentilmente nel filo tenue dell’erba
tristemente lacerando si risveglia
la tua sera accanto, dolcemente
io ti domando.

Sogni
Sogni. La speranza del tempo
che fugge innamora. Il tepore
è una promessa non nuova. Fuggi!
La chiara atona scorza di alberi
al supplice colora una cara curva
di ignote distanze, una chiara
corsa di curve nel sole. Ritorna!
Odi l’unica voce che non si frantuma
scritta a caratteri grandi
dentro un’antica dimora (a valle
è la notte, la morte già angelica
e bruna). Contratta, esatta
monotona e scura mentre ti scrivo ti sfiora.
Remota immota tramonta la luna!
Un tenue rivolo scivola, trema mesta
una luce alla gola. Non so che spiraglio
che fievole linea agevolmente rada,
te morta, una siepe, la sete delle chiome
d’aria già bruna che varia.

Gelide parvenze
Gelide parvenze, la vita acre dei segni
conosco. Non è finito lo spazio.
Io mi corrompo. Non so l’aurora quale il ladro
del tempo rapido senza scampo. È murmure
il suo sonno a una risposta a sommo
di una tomba nascosta che ti trasporta,
e, di trasporto in trasporto, è il suono
dell’essere felice, gioia non tersa
calma nel suo fondo. E se nel suo velo
un corpo dietro un passo senza peso
vede, triste io ti domando. I cieli
sono sciupati, emersi dentro un raggio.
Nell’isola che li contiene
è una rondine felice.

So ma non troppo
So, ma non troppo ormai piú
di quanto era una volta una vera gioia.
Si tocca ora una fiaba.
Quanto di essa
una staccionata era nell’aria,
pure era la febbre.
S’intersecò nel cielo,
oltre te, un breve alito freddo,
un batter folle oltre la tua speranza.

Furono pelaghi sinuosamente smossi
le nebbie dove andavano i cavalli
nell’aria che si arcuò
e si addensavano le chiome
direttamente a valle,
e, presso la riva dei ruscelli,
erano fanciulli
nell’autunno che fu simile a un addio.

I baci, le persiane verdi
I baci, le persiane verdi,
verdi alberi modesti, verdi mobili intorno
sulle piagge dell’orto.
Trepido è un disegno sui tetti.
Una corolla scivola su persone morte.
Sapevi quanto intatto, leggiadro un desiderio,
era colpo di un sogno dischiuso,
sogno chiuso leggero di una morte.

Si raccoglie una luce
Si raccoglie una luce
modesta e trepida leggiadra che ti aspetta
o va in frantumi. Ritorna libera
a te ritrovato, a caso, nel cielo de l’illusione
e sa molte cose sul tuo ciglio asciutto.
Le acque ebbero suono e un accorgimento
rapido. Non sanno essere velieri
e spire mosse del cielo vinto vuoto.

Benché il sole arido si versa,
io stanco, per virtú dei suoi vezzi,
la vena albeggiante, reclina miro;
e un ritmo era mellifluo e disadorno.

Bianco alito era una donna,
nuovo uno screzio era appena o uno spazio
serrato umile che dorma.