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“LA CASA DEL TIGLIO” DI DONADIO

“LA CASA DEL TIGLIO” DI DONADIO

I figli somigliano per più di una ragione alla poesia. Bisogna averne cura; sopravvivono a noi, ma stranamente ci preesistono; infine, pur nello scrupolo dell’educazione o del lavoro di lima, non sapremo mai con esattezza come e quando finirà il nostro compito. La casa del tiglio di Antonio Donadio (Puntoacapo) è la cronaca di un sogno divenuto cura e di una cura fattasi sogno: quello di una paternità che va ben oltre l’aspetto biologico e supera persino quello meramente affettivo. In un’epoca di trattati, manuali, tecnicismi educativi e trasbordanti psicologismi, ecco un libro di poesia che sa presentare al lettore la genitorialità come categoria dell’anima. Una genitorialità che precede il figlio, eppure soltanto in esso matura e s’incarna: proprio come il poeta è certamente tale prima del testo, ma si esprime soltanto in esso e intristisce in sua assenza. Vengono in mente le splendide parole del Timeo platonico, che anche nelle versioni italiane restituiscono immagini di grande forza traducibili anche spiritualmente, a prescindere dal genere e dalla fisicità del parto: “Nelle donne la cosiddetta matrice e la vulva somigliano a un animale desideroso di far figli, che, quando non produce frutto per molto tempo dopo la stagione, si affligge e si duole, ed errando qua e là per tutto il corpo e chiudendo i passaggi dell’aria” (Timeo, 91 C). Non ha genere l’attesa, che si palesa all’apertura del libro in data (non casualmente) di maturo avvento, l’antivigilia di Natale: “Chiudi la porta / al giorno delle lunghe / ombre indiscrete / C’è nell’aria / un’attesa bambina / negli angoli di luce”. E non è inutile ricorda- 6 re come, a partire da questo inizio, quasi ogni verso sia imbevuto di una profonda religiosità laica, che con il rito ha in comune prima di tutto il mistero, la sacralità e persino il paradosso di quella “giovane cosa così più vecchia di me” che, prima del bambino come essere carnale, è la vita stessa. È rituale la presenza della donna, che, come icona spalancantesi nell’iconostasi al passaggio del ministro di culto, dischiude fisicamente e spiritualmente le porte alla vita e non scompare mai del tutto: rimane in sottofondo come presenza silenziosa e come radice indistruttibile, che non a caso ricompare proprio alla fine, in quell’iniziazione (rituale anch’essa) che è per tutti l’ingresso a scuola. “Ti abbraccerà il figlio / sapendoti lontana / ormai / nei giorni stabiliti partiti”. Ed è un rito, indiscutibilmente, ogni gioco di cui è costellata la particolare scrittura ampia e avvolgente di questo libro: rito segreto tra figlio e genitore, celebrazione di una crescita umana che è anche elevazione verso la maturità e si compie nello spazio sacrale – quasi quotidiano témenos – di una paternità ogni giorno confermata. Proprio come la vocazione religiosa: semel sacerdos, semper sacerdos. La casa del tiglio, in cui il piccolo Daniele vive la sua prima estate, richiama la “casa del nespolo” verghiana, alla quale tuttavia si contrappone come l’aurora al tramonto. Se Verga evoca il capolinea – per quanto arginato dai solidi valori della giovane coppia superstite – di tutto un mondo storico e sociale, Donadio prospetta una continuità generazionale che sa garantire la ricarica vitale: e lo fa proprio grazie alla relazione tra genitore e figlio, un rapporto nuovo, forse ancora non molto sperimentato, che mette continuamente in gioco il poeta e il bambino e che trova la sua perfetta espressione nel verso. Il tiglio, oggetto di forte marca simbolica, rinvia direttamente al mito del tiglio e della quercia di Filemone e Baucis: i due coniugi che, secondo la narrazione di Ovidio, scelgono di non sopravvivere l’uno all’altra e di trasformarsi in alberi amici, per poter stare per sempre insieme. Il fatto che questa situazione, almeno per natura, non sia prevista fra congiunti in linea diretta, è vissuto dal padre con una malinconia mai disturbante e quasi serena, proprio perché in essa si compendia lo spirito del dono. “Sarai primavera, tu / ed io / triste autunno e inverno poi. […] / Non più vedrai lacrime di gioia / cucciolo addormentato fra le mie braccia / negato amico fratello: figlio / mai cosa più vera e più tua / e mai cosa / meno tua avuta in dono / da un tempo burlone / per stagioni di tempi diversi”. Se il tempo è burlone, la sua cifra è il paradosso: quello di nascere sempre figli di altri figli, che hanno scelto di diventare genitori, lo sono divenuti ogni giorno e mai possono interrompere questa trasformazione. “Non nacqui padre / né madre tua madre. // Nascemmo figli / di lontani figli”. Ma è anche il paradosso di imparare da chi tutto deve attendersi da noi, innescando così un cambiamento che è forse la chiave privilegiata per raggiungere la maturità. Ricevere vita da coloro ai quali abbiamo dato la vita, e non per calcolo ma per ridefinizione del gesto stesso di dare, significa infatti aver compreso che l’unico modo per ritrovare tutto senza perdere nulla è donarlo. Oltre a costituire uno dei vertici dell’humanitas, tale atteggiamento mentale, in un’epoca materialistica e consumistica come la nostra, suona addirittura rivoluzionario. A sublimare ulteriormente il dono interviene la separazione forzata, per motivi di lavoro, del poeta dalla famiglia (lontananza segnata assai fortemente dall’invisibile frattura trasversale tra nord e sud, i distanti luoghi di lavoro dei genitori). Ad ogni ritorno si percepisce la necessità di ricucire lo strappo, di medicare la distan za: come se il tempo passato insieme dovesse valere almeno due volte. In questo libro ogni oggetto, ogni minima traccia o linguaggio della natura (il verso degli animali, le foglie, il riflesso del sole, la neve e la nebbia) ha un forte connotato simbolico: si può forse parlare di “realismo simbolico” o di “simbolismo della concretezza”. Forse anche per questo la cifra poetica di Donadio non è mai, se non assai marginalmente, la narrazione. Coerentemente con l’aspetto sacrale di cui abbiamo parlato, questa poesia annuncia piccole epifanie quotidiane che ripetono il primitivo miracolo della vita incarnata, dell’origine. Il linguaggio è forse più vicino a quello largo e formulare dei salmi, con enjambement avvolgenti, chiuse maestose, versi talora ripetuti e con la presenza di una costante seconda persona singolare, che rinvia al dialogo. Si nota il forte influsso del miglior Luzi (quello degli anni Settanta) e di autori più recenti, come il Tiziano Rossi di Gente di corsa. Spesso il dialogo è colto dinamicamente nel transito, nel gioco o nella corsa insieme al bambino. Il viaggio finisce, sempre simbolicamente, con il primo ingresso in società del figlio a scuola e annuncia altri diversi accompagnamenti, altre corse, altri dialoghi. L’avventura della vita non è finita, ma neppure il libro lo è. Quando la scrittura, come in questo caso, attinge così direttamente alla vita, somiglia più a un poema ininterrotto che a una serie di episodi staccati. Si diventa continuamente persone, oltre che genitori. La poesia è la cronaca viva di questa crescita umana che si fa dono, testimonianza e catarsi.
Alessandra Paganardi

Prefazione

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