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RICOGNIZIONE SUI TEMI DELL’AMORE IN ‘AFFARI DI CUORE’ DI RUFFILLI di Michele Nigro

RICOGNIZIONE SUI TEMI DELL’AMORE IN ‘AFFARI DI CUORE’ DI RUFFILLI

Il volume Affari di cuore  di Paolo Ruffilli (Einaudi, e in duplice edizione italiano-rumeno Affari di cuore & Paolo e Francesca, Institutul European ) è una stupefacente  – per vastità di argomenti –  ricognizione intorno al tema dell’amore: quello della “habanera” dell’opera Carmen di Bizet (“l’amour est un oiseau rebelle”), non altro. Niente, quindi, amor di patria, di Dio, dell’arte, della musica, della letteratura, del fato, del sapere, della verità: niente di tutto ciò.

Amore e poesia: Paul Valéry li aveva, circa ottant’anni prima, nel 1892, bollati come idoli spregevoli e caotici in quanto legati all’oscuro profondo della persona. Sigmund Freud, meno di quarant’anni dopo, nel 1920, pervenne alla nozione che amore e morte (in Ruffilli: “dentro di te, / sono già morto”) sono non soltanto indivisibili ma intrinsecamente patogeni. Hai voglia di dire “piacere”; la coazione a ripetere, sulla freccia del tempo, è una corsa verso la fine, il concluso, il continuamente frustrato, il relativo, l’effimero: Jean-Pierre Claris de Florian l’aveva scritto già nel 1783: “Plaisir d’amour ne dure qu’un moment / chagrin d’amour dure toute la vie”. E Ruffilli detta: l’amore, spesso, è un’”impresa attiva / di reciproco soccorso / tra persone / e di conforto. / Noi, infelici / perché non ricambiati, / ci stringevamo in due / nel letto / ma eravamo in tanti “ e l’infelicità sembra la cifra statistica del fenomeno. Un universo d’infelicità, quindi, senza quell’autentica gioia del sesso (e delle sue declinazioni alla Boccaccio, alla Chauser, ma anche alla Tansillo, alla Marino, alla Stigliani) che definiva i contorni del discorso amoroso tra Medioevo e Controriforma. Ma, forse, si trattava solo di letteratura. L’opera di Paolo Ruffilli si palesa come una sorta di Ars magna (“combinatoria” secondo la definizione di Leibniz) alla Ramon Llull, gli elementi della quale risultano ordinati in modo da consentire una conoscenza fondata certo sui cinque sensi, come nella trattazione che vien fatta dell’amore, ma assiologicamente nobilitata da un sesto: l’”affatus”, ossia la parola: “hominificans”, umanizzante. Parola che risulta, nell’opera di Ruffilli, sì entusiasta (in senso etimologico), ma anche umiliata e, spesso, equivocata. Nel leggere i componimenti di Ruffilli, alcuni spunti critici mi sono pervenuti (poteva essere altrimenti?) dal Roland Barthes di Fragments d’un discours amoureux, dalle distinzioni poste, in sede psicanalitica, fra amore captativo e amore oblativo e dall’analisi della limerenza e del ”deficiency love” per come delineati dalla psicologia contemporanea. Attraverso queste griglie interpretative (cui ho aggiunto alcune considerazioni di Kant e di Emmanuel Mounier sulla persona umana) ho, dunque, affrontato il testo. Ne tratterò per filoni tematici, senza fare specifico riferimento ai titoli delle singole poesie e componendo un “collage” che raduni spunti disseminati in vari luoghi del volume.

Tema del dare e del ricevere. Mai in amore, secondo impone il “politically correct”, si dovrebbe usare la logica ragionieristica della partita doppia.  Eppure: “Te lo assicuro: / per quello che / ti ho preso, / in cambio molto più / ti ho dato” (che non sentano le femministe militanti!), ma Ruffilli rimedia subito, sul piano sessuale, con felice, ossimorica (fra dare e avere, appunto) invenzione, nella quale dare e avere mirabilmente si confondono: “lasciati entrare […] dentro di me, […] scivolare in me / nel punto stesso / del mio starti / dentro ”, con la quale si rovescia il logoro, insulso  “lasciami entrare dentro di te”.

Tema del divorare l’altro. Il tema si esprime con questi accenti: “retaggio cannibalesco”;  “morderti e masticarti”;  “nel fondo del morso / distesi / slittati confusi / arresi”; “mi hai preso / tutto / mordendo la polpa / del tuo frutto”; “ti ho presa / e ti ho voluta / succhiata digerita / tutta intera, / polpa anima / e nocciolo. / Rimasta catturata / tenuta nelle spire / di questo mio amore nel desire, / nel mio restare solo / vivo di te / dentro il tuo morire” [cf., da Madrigale, di Vittoria Colonna: ” Morte, che nel morire / m’empi di gioia tutto e di desire, / per te son sì felice / ch’io moro e nasco al par della fenice”]. La furia erotica può giungere a fomentare rituali appetitivi, nel senso etimologico del termine: “Sono tornato solo [sic!] / per morderti e graffiarti”) o tradursi in attitudini bulimiche: “mi ami al punto / di ingoiarmi, / […] di masticarmi, […] di risputarmi fuori / munto e triturato”.

Tema della follia amorosa.  Emblematico nell’Orlando furioso (XXIV, 1) “Chi mette il piè su l’amorosa pania, / cerchi ritrarlo, e non v’inveschi l’ale; /  che non è in somma amor, se non insania”, viene, da Ruffilli, qui ripreso con i toni saffici di “Schiava d’amore”: “L’amore  / mi impedisce / di dormire / mi toglie l’appetito / mi mette addosso / una vana frenesia / e, pazzo, / vado in giro / in preda al desiderio / e alla follia [si noti, negli ultimi due versi, un endecasillabo spezzato in un settenario e un quinario, accorgimento stilistico presente più volte nell’opera del poeta, come in quella di altri insigni autori della modernità, N.d.R.]: non posso / stare fermo / mi brucia il sangue / nel flusso  delle vene / non trovo pace / se non nell’agonia” (ricordo che la risoluzione orgastica venne definita, nel XVI secolo, la “petite mort”, la piccola morte e che a uno stato d’animo di totalizzante dipendenza dall’altro si è dato nome limerenza – vedasi oltre). L’estrema tensione unitaria indotta dalla passione (“sei sciolta in me / anima e corpo” – cf. i luoghi biblici “caro de carne mea”  e “duo in carne una”, rispettivamente in Gen II, 23 e III, 24) si traduce in immagini forti: “sono nel tuo sangue. / Siamo squartati  / l’uno nell’altra e, / nello squartamento, / più beati. / […] Di tutto il resto / non so più che farne – / la furiosa voglia / di annegare in te / e di essere sepolto / dalla carne”:  Proprio come nell’Albino Pierro di Nu belle fatte. Mbàreche mi vό’: “Mbàreche mi vό’, / e già mi sòmmese, ‘a notte. / Ié pure, / accumminze a trimè nd’‘a sita, / e mi mpaùre. / Mi iennére dasupr’a tti / e tutte quante t’i suchére, ‘u sagne, / nda na vippeta schitte e senza fiète, / com’a chi mbrièche ci s’ammusete / a na vutte iacchète / e uèreta natè nd’u vine russe, / cchi ci murì” (Una bella storia. Forse mi vuoi. Forse già tu mi vuoi / e mi sogni la notte. / Io pure ora comincio / a tremare di sete / e spavento mi prende. / Ma qui mi avventerei / sopra di te, a succiarti, / d’un fiato solo, il sangue: / come fa l’ubriaco / che s’attacca alla botte / spaccata e che vorrebbe / nuotare nel vin rosso per morirci [mia traduzione inedita]). L’insania del possesso di amanti “insaziati e in preda / a una furia pura / nell’ardore / di incroci e posizioni, [prelude, comunque, alla] sconfitta”: se si è raggiunto il “climax” genitale, precluso appare quello spirituale – “omne animal triste post coitum” (Galeno). Affine al tema dell’insania amorosa è quello che prende le forme di un’alienazione estatica: “da giorni, fuori dal mondo, […] rimasta qui stampata / inesausto aspetto / contemplo /  la sacra / sindone del letto”.

Tema del sogno. “Adesso dormo / tutto il giorno / e cerco di sognarti […] volendomi piombare / ancora tutto / dentro il mio sognare […] che ardente sogno / dentro la tua bocca;  […] quando sarò lontano / ti sognerò / e, sognandoti, / mi sforzerò / di non sognare;  […] andando a letto / sei il mio / ultimo pensiero […] e il mistero è / l’adesione immediata / più totale, la fusione / che ogni volta  / si realizza / da vicino: […] l’incastro più assoluto” (quante volte abbiamo pensato che il piacere più grande ci era stato concesso da certi, particolarmente intensi, orgasmi notturni…). A volte si tratta di un Doppio sogno alla Arthur Schnitzler, con annesso tradimento e “rimorso di tradire”. E qui, forse, gioverebbe parlare, in termini psicoanalitici (R. Laforgue, A. Hesnard, E. Pichon, R. de Saussure: Le rêve et la psychenalyse. Norbert Maloine. Paris., 1926; tema poi ripreso da Freud e Lacan), di “amore captativo” e di “amore oblativo” (ma ne dirò in seguito), chiarendo subito che può darsi un amore patologicamente oblativo, laddove è ugualmente possibile esista un nevrotico amore totalmente captativo (fisiologico nel neonato, ma chiaramente patologico nell’adulto immaturo). E si legge: “sorriso / che il sogno ti ha lasciato […] nascente… / ma nel suo stato / appunto risorgente / e mai del tutto nato” e, all’interno di un insincero trasporto amoroso, “ti ho vista in sogno […] persuaso dell’inganno”: inganno e disappunto.

Tema della seduzione e dell’adulterio. La seduzione è una delle inesauste cagioni della pena d’amore: ogni qualvolta si abdica dalla parità delle armi e si tende a prevalere, infino a prevaricare, sull’altro, appunto seducendolo, l’altrui inconscio, prima o poi, sospetterà l’inganno e saranno guai seri: “il sogno  / che ti sei data / a un seduttore [in Eyes wide shut  di Stanley Kubrick sono compresenti i temi del sogno, della seduzione e del tradimento, N.d.R.] / anche se mi fa torto / ti seduce  di più / dell’amore / che ti porto”. Attraverso meccanismi di proiezione, identificazione e alienazione emergono, all’interno di una relazione adulterina,  sentimenti contrastanti di “paura”, di fascinazione (“credevi  / di essere fedele  / a tuo marito, / e invece lo tradivi / già solo guardandomi”), di dipendenza affettiva (“dominatrice vera  / [sei] appagata / del mio stato / dipendente e innamorato / e, da regina, / ne hai sempre / approfittato / e, per averti, io / da sempre l’ho accettato” (cf. il temi del sogno e della limerenza).

Tema della “coincidentia oppositorum”. L’Amore del Convito platonico è un dimesso fanciullo che, oggi, si direbbe problematico (grazie a sua madre Afrodite-Penia); dorme ai margini delle strade, ma che è anche molto sveglio, intraprendente, avido di conquiste in quanto figlio di Pόros (Acquisto) e Ruffilli, catto d’amore,  confessa: “Sento di tenerti / quanto più / sono tenuto, / salvato quanto più / sono perduto”. Come in Juan de la Cruz (Cántico espiritual):  “En la interior bodega / de mi amado bebí, y cuando salía, / por toda aquesta vega, ya cosa non sabía / y el ganado perdí que antes seguí” (Nell’intima dispensa / io bevvi dell’amato / e quando ne partii / per tutta questa plaga, / più nulla seppi e persi / l’intero gregge che prima curavo [mia l’inedita traduzione] – laddove il termine “ganado” rimanda, etimologicamente, al verbo “ganar”, guadagnare, acquisire, ottenere un beneficio economico. Da qui il proponibile senso del verso: “persi il guadagno che dapprima ottenni”).

Tema della guerra fra i sessi. La tensione-tenzone fra i sessi viene trattata, coerentemente e senza sconti, con una terminologia guerresca: “Il letto per l’amore  / è un  campo di battaglia […e di] conflitto, [dove si è] morti; […] in questo corpo a corpo [tu] vuoi essere schiacciata. [È una] carneficina. […] Mi sono ritirato / dopo averti conquistato” […] in una eterna guerra / di posizione; […] molto mi è piaciuto / di essere la preda / di una tua conquista ”. Ne “Le jeux de l’amour et du hasard” (Marivaux) a far vincere la guerra dei sessi non sarà l’arma del piacere o il sentimento, ma la callida sagacia del femminino: al limite del travestimento e dell’insincerità (pensiamo al “fallite fallentes” [ingannate queste ingannatrici] dell’Ars amatoria di Ovidio e al “lo so che sai  / mentire” di Ruffilli). Infatti, a sfatare il mito che vorrebbe le donne emotive e gli uomini razionali, ecco la “reproche”: ”mi ti concedi a rate: / incontri, lettere, / telefonate… / E sempre controllato / è il modo / che tu hai di amministrare / gli imprevisti dell’amore / organizzato / per quantità e per date, / senza contare affatto / sul mio piacere [sarà perché] non mi accontento / […] nel mio volere solo / l’assoluto. […] Tu ti lasci / guidare dalla testa / mentre credi / di affidarti al cuore”: un uomo-cielo, poeta e idealista, potrà mai concedersi, senza dolore, a un dialogo con una donna-terra intrisa di “valori” borghesi, continuando a fare “il sogno più proibito: l’idea di un infinito, […] il sogno più totale”? (cf. il tema della compatibilità e della centralità affettiva).

Tema dell’assenza e dell’amputazione. Sono, questi, altri “Leitmotiv” tipici della poesia amorosa: d’ogni tempo: “Voglio / che in mia assenza / ti parlino / le cose / che ti ho dato. […] È come se  /  mi avessero strappato / una parte di me”, ai quali si giustappone l’immagine genitale femminile di una ferita che diviene metafora canonica in sede psicanalitica: “avanzo / con le dita / per amore / dentro la ferita” e “la forza che si gonfia […] mi spinge a uscire / fuori di me proteso / e sbilanciato / dentro lo spacco / della tua ferita / aperta e tumefatta”, dove amore e ferita sono termini nei quali Freud (in Al di là del principio di piacere) scorse l’irrimediabile patogenicità della relazione amorosa. Da questa proviene, dunque, il timore (“sento che / sono prigioniero: / mi fai paura / della mia paura”) di un tradimento che ci possa far diventare, a nostra volta, vittime. Rimedio all’angoscia del distacco, della solitudine (c’è chi, in termini di psicologia del profondo, ha parlato di taglio del cordone ombelicale) è l’amplesso: nostalgia e, insieme, rivissuto traumatico del venire al mondo, nonché desiderio inconscio di pacificante rientro nella matrice: “Non vale la misura: / non so che farne, / è vero, del distacco. / Mi affido alla paura / e affondo in te / sulla tua carne / il male che mi assale / e che mi opprime”; onde il tradimento dell’amata non si può vivere se non come inganno fedifrago posto in atto dalla madre, quindi come abbandono definitivo e inconsolabile. Da qui pulsione di morte auto- (cf. il goethiano I dolori del giovane Werther) o etero-diretta (femminicidio come matricidio, alla Oreste, dove Elettra è la complice, il sostegno che, “madre” sostitutiva e/o “donna dello schermo”, risarcisce affettivamente il “bambino” abbandonato). Affine a questo tema è quello delle occasioni mancate, troncate sul nascere, quello dell’“avrebbe , sì, / potuto e non è stato” – ed è amore di “Sehnsucht”, come nel Gozzano de “le rose che non colsi”.

Tema dei sensi. “Cinque sensi e […]  infinite fantasie / […] riescono a innescare” ed alimentare l’istinto erotico: l’olfatto (“più niente d’altro, / se non essere te / dentro di te / nel cuore del tuo cuore, Diventato parte / del tuo stesso odore […] annusare”), il tatto (“mi sforzerò / di non sognare / pensando di toccare / per davvero / la tua pelle di luna […] palpare e stringere, […] riconsegnando al tatto / tutta la sorpresa della vita”.); il gusto, con annessa bulimia (“carne aperta e morsa / […] alimento prepotente […] sola medicina […] leccare succhiare”); la vista (tu mi eri entrata già / dentro, dagli occhi […] ma, ora respirandoti / mia sempre più stretta / è la prima volta / che sento mescolati / i due destini”); l’udito (“ascolto intanto , / teso sul tonfo / del tuo cuore, / la voce che cigola / e che stride / pronunciando: ‘Amore…’”). “Passando per i sensi […] è difficile / tornare separati, / di nuovo liberi / da fili ormai intrecciati”.

Tema dell’amore captativo. “Ti voglio / in tutta la tua carne; […] sogno di stare […] con una donna che […] si occupa di me / continuamente [ma incombe, tuttavia,] una frana mai finita”: […] dici di volere / solo la mia pelle / e che a tirarti / è la mia carne, / non puoi avere il resto / perché non sai che farne”. L’amore captativo è sempre diseguale, squilibrato, d’altrui infelicità felice (“infelice / della mia felicità” si definisce Ruffilli), ai confini del sadismo; luogo degli ossimori; letterariamente efficace, forse (nel goethiano Werther, nel seduttore kierkegaardiano, nel Burlador de Sevilla di Tirso da Molina), ma esistenzialmente devastante: “mi chiami / quando hai voglia / per riempire il vuoto / di […] vanità”: avventizi delitti e micragnosi castighi, reiteratamente esauriti in fugaci combustioni (“eccomi  pompiere / di ogni giorno /alla fiamma / che ci avvolge / dilagando”) che mai si drammatizzano come, invece fu nell’abbraccio infernale di Ulisse e Diomede. Tipico dell’amore captativo è il concedersi a “partner” interscambiabili: “se non ci fossi io, / sarebbe  un altro / a darti l’eco”: dolorosa constatazione del prevalere d’un immaturo Ego(ismo).

Tema dell’amore oblativo, della limerenza e del “deficiency love”. “Vedrai che / nel precipitare / ti farò io da rete […] amerò finalmente / solo per amare […] attento alla tua vita / e pronto a darti / proprio per dare”. Fondamento dell’oblatività, in amore, è il concetto di persona (non di “individuo”!: in un servizio di posate un singolo cucchiaio è, appunto, un “individuo” e si denota come tale, mentre la persona è un connotato di valori: distinzione fondamentale introdotta dal personalismo di Emmanuel Mounier) e qui il Nostro coglie, con attenta intenzione, l’inevitabilità del riscontro: “ritrovarti […] nella persona. / È stato questo / e resta, il sogno, / che ancora / mi ossessiona”. Si tratterebbe di volgersi, kantianamente, all’altro, non come se fosse un mezzo da adoprare, ma un nobile fine da realizzare – ed è, qui, inattesa, piacevole sorpresa, che chiarisce una questione fondamentale: infatti sia Daria Galateria (prefatrice del volume) sia  Ruffilli, nel trattare il tema della persona amata, si erano finora  espressi solo in termini di “oggetto” d’amore, laddove la parola “soggetto” risultava assente dalla loro indagine fenomenologica. Significativamente dimenticata (a tal proposito Roland Barthes riconosce, in riferimento all’altro, che “tantôt je le vois comme objet, tantôt comme sujet; j’hésite entre la tyrannie et l’oblation” [a volte lo vedo come oggetto, altre volte come soggetto; esito fra la tirannia e l’oblazione – se ne era occupato anche Martin Buber a proposito di Dio quando parla a Mosè], soffermandosi anche sulle alternative possibili all’oblazione: suicidio, ritirata, viaggio etc.). Invece, qui, cosa pensare e dire? Che se, nell’intenzionalità (Brentano) che l’amante attiva nei riguardi di chi egli ama, prevale l’oggettivizzazione, alto diviene il rischio della reificazione del “partner”. In ogni caso è palese l’opzione del poeta: “ l’amore ormai cosciente / che ti viene / da chi / già avuto tutto / e non si aspetta  niente [ha reso…] chiaro / finalmente / che anche di più / ha amato / proprio chi amando / ha rinunciato”. Con il che l’altro assunto kantiano, complementare a quello appena richiamato, dell’“agisci in modo che ogni tuo atto sia degno di diventare un [positivo] ricordo” soddisfa in pieno il conseguimento, da parte di Ruffilli, di un’elevata, categorica moralità. Se, sempre Barthes, afferma: “le discours amoureux est aujourd’hui, ‘d’une extrème solitude’” (il discorso amoroso si svolge tutto, al giorno d’oggi, all’interno di una solitudine estrema), aggiungendo che, per evitare “toute grégarité” (ogni subordinazione gregaria) di un soggetto rispetto all’altro, non si può non prendere in considerazione il fatto che alla fase esaltata dell’amore nel suo stadio iniziale possa far seguito “le moment de la passion triste, la montée du ressentiment e de l’oblation” (la fase della passione triste, il crescere del risentimento e dell’oblazione [nell’accezione di sentimento spurio, inautentico, nevrotico, di stampo wertheriano]). Da tale condizione, “ de ce tunnel, cependant, je puis sortir; je puis ‘surmonter’, sans liquider; ce que j’ai affirmé une première fois, je puis de nouveau l’affirmer, sans le répéter, car alors, ce que j’affirme, c’est l’affirmation, non sa contingence: j’affirme la première rencontre dans sa différence, je veux son retour, non sa répétition. Je dis à l’autre (ancien ou nouveau): ‘Recommençons’” (da questo tunnel, tuttavia, posso uscire, posso “andar oltre” senza chiudere definitivamente; ciò che ho affermato la prima volta posso affermarlo nuovamente senza ripeterlo, in quanto ciò che affermo è l’affermazione stessa, non la sua contingenza: confermo il primo incontro nella diversità, aspiro alla sua riproposizione, non la sua ripetizione. Dico, quindi, all’altro [nuovo o vecchio che sia]: ‘Ricominciamo’” (mie le traduzioni). Bene; sennonché, ove tutto quanto risulti effettivamente ipotecato da un’estrema solitudine o da un’afasia relazionale – ciò che, purtroppo, sembra essere la norma – non potrà l’atto velleitario di un’infelicità moralmente  diseducata, all’interno della quale prevalgono le stesse forze irrazionali che agirono al momento dell’iniziale infatuazione, a dar sostanza a quel “Recommençons”. E ciò rappresenta la vera tragedia dei nostri giorni. A questo punto, a completamento della trattazione della diade “amore captativo/amore oblativo”, occorre dire qualcosa anche sulla limerenza e sul “deficiency love”, partendo dall’assunto “È l’amore / la sola chiave / che aprendo i cuori […] annoda le figure”. Si parla di limerenza nel caso di una sovradipendenza amorosa, di una pseudodedizione affettiva a carattere quasi ossessivo, che giunge ad impedire il normale svolgimento della vita quotidiana: la “cotta”, l’infatuazione, che può condurre l’amante a sorvolare persino su aspetti francamente patologici della personalità dell’amato [“non m’interessa che sia un “serial killer”] e a fantasie autoingannevoli nel caso di un sentimento non corrisposto [“non mi ha telefonato perché è molto occupato] ). Fortunatamente il tempo, nei casi adolescenziali, guarisce, di solito, la condizione (“tempus omnia medetur”). Il “deficiency love” (in Italia si parla di “amore da carenza”) si caratterizza per un bisogno patologico di conferma affettiva da parte dell’amato, che si esprime in termini di possessività, mancanza di scambio emozionale e, in definitiva, di scarsa preoccupazione nei confronti delle necessità dell’altro. In conclusione: se non si è in grado di attingere la realtà di un rapporto cognitivamente, emotivamente, mnesicamente, criticamente e linguisticamente adulto, ogni “Liebestraum” è destinato a tradursi, di necessità, in un perverso, cupo, angosciante “Lebensraum”, unicamente teso a dilatare i confini del proprio egoico, narcisistico potere.

Tema del “fantasma”.  Qui si tratta di un fantasma difensivo, direbbero gli psicoanalisti: “mentre la bacio / è te che bacio. / La bacio solo / per baciarti” (Patty Pravo cantava: “pazza idea / di far l’amore con lui / pensando /di stare ancora insieme a te”). Ma può accadere persino un piacevolissimo imprevisto: ”Ho cominciato / già a dimenticarti / con un’altra / che mi è piaciuta / e mi si è data / generosa […] alla fine l’ho chiamata / con il tuo nome / e lei ridendo / mi ha detto / di sentirsi amata / anche in quella / situazione sbilanciata […] allora l’ho voluta / per davvero / volevo lei / che mi voleva”.

Tema della compatibilità e della centralità affettiva. Ogni amante aspira alla centralità, ovvero a una totalità del rapporto affettivo incardinata sull’Io (retaggio della mai elaborata interazione materno-infantile). Il tradimento, come “ferita narcisistica”, mina, spesso irrimediabilmente, l’autostima, generando, a volte, una reazione, neurologicamente mediata dall’amigdala, che può sfociare in una violenza fomentata dalla frustrazione: “che le piaccia / senza amore / è una ferita secca […] a tratti dilagante / ed infinita”. All’interno di una relazione immatura (“ergo” nevrotica) uno degli amanti può anche tenere sulla corda l’altro: ritardando agli appuntamenti, lasciandosi desiderare, negandosi all’incontro (Ovidio aveva ripetutamente trattato la strategia dello “stop and go” nella relazione amorosa e Ruffilli, richiamando le esitazioni della Zerlina del Don Giovanni mozartiano con il suo “vuoi e non vuoi”, ripropone l’ambivalenza dell’amore se questo si riduce a un’asfittica partita a due fra desiderio, perversione tattica e rimorsi) e costringendo l’amato a un non facile adattamento:  “nei ritagli / del tuo tempo, / mi sono ritagliato / un’altra vita […] incerta”.  A volte il “vulnus” inferto all’autostima proviene da una struttura di personalità narcisistica del “partner”: “sei / una donna in carriera, [dall’]amore  debole / troppo controllato. / Per te, in fondo, / che cosa sono stato / se non un’occasione / di vanità e di distrazione… / [e, più ancora, con una sfumatura personologica di tipo fobico, N.d.R.] un pericolo / al tuo ordine costituito [eppure] era destino / che mi piacesse / un’arrivista / un po’ borghese, / però ogni volta / nel rendermene conto / per me è dolore / che ti dimentichi / del contenuto / per il contenitore”. E ancora: “la verità è che / non ti piace / rinunciare / né a me né agli altri / compreso tuo marito / e ci pretendi / in proprietà. […] Oggi, al mercato / dell’amor perduto, / le tue mire vere sono i soldi, […] la casa, i vestiti, / i viaggi… / i tuoi gioielli. /  Il resto, se anche / lo pretendi / e lo hai voluto, / sbiadito ormai / è solo uno starnuto”.

Tema dell’”omnia amor vincit” (Virgilio). Il tema è una costante dell’esperienza passionale: “perché l’amore / è potente […] e vince sempre / [ma] senza conquistare” e può travolgere: “un attimo e / la vita / ti appare ribaltata […] e non importa / che poi duri un’ora / o la vita intera. […] Hai voglia a spegnere / l’incendio, / trattenere il fiato / e soffocare. / L’unico rimedio / è il tempo che, passando, sfoca / e fa dimenticare”.

Tema del dubbio.Il dubbio di quale / sia la strada. / Chi usa la testa / e chi si affida / al cuore / e tutti e due i modi / possono sbagliare” (“Quot homines tot sententiae”, tanti i pareri quanti gli esseri umani [Terenzio]). Luogo privilegiato della speculazione filosofica, in poesia John Donne ne ha trattato, quale fautore del “[to] doubt wisely”, dubitare saggiamente (Satire III, 77); nella modernità ricordo il Robert Frost della celebre The road not taken, la via che non percorsi (in Mountain Interval, 1920: “Two roads diverged in a yellow wood / and, sorry I could not travel both / and be one traveller long I stood / and looked down one as far as I could / to where it bent in the undergrowth. // Then took the other, as just as fair, /  and having perhaps the better claim / because it was grassy and wanted  wear; / though as for that the passing there / had worn them really about the same / and both that morning equally lay / in leaves no step had trodden black. // Oh, I kept the first for another day! / Yet knowing how way leads on to way, / I doubted if I should ever come back, / I shall be telling this with a sigh. // Somewhere ages and ages hence: / two roads diverged in a wood, and I…/ I took the one less travelled by, / and that has made all the difference”. Due strade divergevano in  un bosco / giallo. Mi dispiaceva non percorrerle / entrambe, solitario viaggiatore. / A lungo stetti fermo, esaminando / una di esse fin che potei farlo, / là dove si fletteva tra gli sterpi. // Poi presi l’altra ché, forse, ne avevo, / com’era giusto fosse, l’esigenza: / perché, erbosa, bramava calpestio / (benché, riguardo a questo, si può dire, / che non ci fosse quasi differenza, / ché entrambe, in quel mattino, erano sparse / di foglie e senza che alcun passo / scuro le avesse fin allora calpestate). // Tenni il cammino per un altro giorno. / Pur sapendo che via conduce a via, / ebbi il dubbio se mai fosse dovere / tornare indietro e dirlo in un sospiro. // In qualche posto, anni ed anni fa, / due strade divergevano in un bosco; / presi la men battuta e fu da ciò / che derivò tutta la differenza [mia la traduzione, inedita]).

Tema della ricerca della motivazione ad amare. “Cerco e inseguo / misurandola sul serio / la causa / di tanto desiderio” che, forse, risiede in un  “istinto a oppor[si]  / al tempo […] / fingendosi un istante [cf il goethiano “verweile doch, du bist so schön”, fermati qui, attimo, sei bello!, N.d.R.] / eterno il mondo / prima che la traccia / slitti via / cedendo a fondo, […] in quel discendere veloce / dentro il fondo”. Si può dire, per Ruffilli, che sia in causa, appunto, una tensione metafisica verso l’idea platonica. Occorre, però, riconoscere l’estrema difficoltà che questa possa realizzarsi nel rapporto amoroso, in quanto esso non può che essere esperito, se non “én ainígmati, in aenigmate”, cioè in maniera oscura, misteriosa, al modo in cui Paolo di Tarso si riferisce alla visione che gli esseri umani hanno di Dio.

Nella lirica che dà, in parte, titolo al volume in traduzione rumena (Paolo e Francesca), colma di settenari intrisi di un sommesso “pathos” elegiaco, il rimando, quasi obbligato, è al V dell’Inferno; con la differenza che qui Ruffilli resta solo e la Francesca da lui desiata, invece di proclamare, sfidando i cieli e i fati, “questi, che mai da me non fia diviso”, inforcata la bici, se ne va, pur leziosamente lagnandosi : “Perché siamo infelici?”. La risposta al quesito potrebbe risiedere nella natura alienata della relazione intrattenuta con il nostro poeta: mentre l’eroina dantesca, costi quel che costi, non si spartirà giammai dal suo amante, imponendosi orgogliosamente, al di là del bene e del male, sulla colpa e sulla pena. Questione, dunque, di forza emotivo-caratteriale: in questo il Medioevo sovrasta di gran lunga il flebile balbettio della postmodernità. E se, invece, nel quesito della donna che si allontana pedalando si annidasse la consapevolezza di un “eterno ritorno”, di un’ineludibile coazione a ripetere a cui ella tenta di sottrarsi? Ma lasciamo parlare, ancora e solo, la letteratura: il Borges de La cifra (1981): gli amanti danteschi “dejan caer el libro, porque ya saben / que son las personas del libro” (lascian cadere il libro consapevoli / d’essere i personaggi di quel libro). Di quale libro? Di quello, del ciclo cavalleresco bretone, che li porta a identificarsi in  Ginevra e Lancillotto – “son formas de un sueño que fue soñado / en tierras de Bretaña” (d’un sogno sono forma / in Bretagna sognato) – o forse di un altro, presentito: “otro libro hará que los hombres, / sueños tambien, los sueñen tambien” (farà sì un altro libro che gli umani, / sogno essi stessi, possano sognarli [mie le  traduzioni])? Il racconto del romanziere cavalleresco che indusse il Malatesta e la Da Polenta al peccato, i versi di Dante e quelli del cieco argentino possono essere dunque racchiusi, mirabilmente, in uno stesso luogo letterario, concepito come una sequenza di scatole cinesi: libri in libri, sogni in sogni, come in Ficciones (Finzioni – 1935-1944): “con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che era anche lui una parvenza, che un altro stava sognandolo”: letteratura in letteratura (come“Dio vero da Dio vero”, per Borges). E la libertà? E il libero arbitrio? E dove la “virtute” e la “canoscenza”? Rassegnarsi a domande senza risposta o tentare di rispondere, in virtù di quel lulliano ”affatus hominificans” di cui sopra si è detto? “Essere o non essere”, dunque, il che, oggi come sempre, vuol dire: “essere o apparire”? Ancora involti nel “velo di Maya” (Schopenhauer) della postmodernità, inautentici, avendo eluso l’aureo imperativo nietzschiano “divieni ciò che sei”, purificato alla limpida fonte di Kant, siamo avvinti, in catene, alla rupe dell’immaturità, rodendoci da soli il fegato dell’impotenza.

In una poesia della raccolta si legge “lo sai, mi piace. / Sarà il mio modo / tutto di testa. / Che tu tenga le scarpe… / almeno una, / questa che ti porti / dietro: / sentirla  addosso a me, / toccarla intanto /  che mi calpesta”. Si tratta di una ripresa, con minime varianti (chissà cosa ne avrebbe scritto Contini…), di un passo già incluso nel Diario di Normandia: “Lo sai, mi piace /  sarà il mio modo / tutto di testa  / che tu tenga le scarpe, / almeno una, questa / col tacco a punta / che mi porto dietro: / toccarla, intanto, / sentire che mi calpesta”. L’autocitazione è pratica antica: in poesia ne usarono Virgilio (Egloga V, 85-87) e il Boiardo (Pastorale V, 25-26); ne fruirono, in musica, Haydn, in più luoghi, stante la fretta che era costretto a mettere nel suo lavoro, Mozart (aria “Non più andrai” dalle Nozze di Figaro, riproposta nel Don Giovanni), Rossini (tra Barbiere di Siviglia e Cenerentola (quintetto “Signor una parola”).

Per finire, citando Borges, mi si lasci affermare che se un qualsiasi “libro […] è una relazione, è un asse di innumerevoli relazioni”, a maggior ragione lo è uno che tratta di amore.

Michele Arcangelo Nigro

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