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LA POESIA DI GIUDICI

LA POESIA DI GIUDICI

Giovanni Giudici è un «poeta senza miti». Lo ricorda così Alfonso Berardinelli nella raccolta saggistica La poesia verso la prosa (1994), come un vero intellettuale che nel gioco della sopravvivenza «si autodenigra, addirittura finge di denigrarsi», si fa piccolo nelle vesti di copywriter della direzione Pubblicità e Stampa della Olivetti, tra i nuovi doveri degli umanisti e l’etica specialistica dell’industria degli anni Settanta. È dura l’esistenza dell’artista che vuole considerarsi impegnato nella «trasformazione» e, allo stesso tempo, pretende di sopravvivere nella sua personale società (di parole) non trasformata. Del resto, anche nelle liriche de La vita in versi (1965), risultava evidentissimo il contrasto tra l’accettazione formale e sociale della realtà e il pressante desiderio di uscirne: le «giornate bianche» di cui Giudici parla non sono altro che il ripetersi del costante ritmo di accettazione di una vita che non può essere semplice, perché è divenuta somma dei ruoli di chi, ormai senza storia, occupa le città e si adegua con «guasta coscienza» ‒ e senza troppa consapevolezza ‒ al «civico decoro». È un interesse episodico, il suo, per il rapporto essenziale tra letteratura e tecnologia, tra letteratura e produzione, che trova respiro nelle parole militanti de La letteratura verso Hiroshima e altri scritti (1959-1975), una raccolta di brevi saggi che ripercorrono l’esperienza del nuovo intellettuale ‒ «invecchiato» e quasi privato di tale titolo ‒ non più confinata entro il perimetro chiuso della repubblica delle lettere, bensì inserita nelle moderne articolazioni di produzione. C’è un unico dovere al quale occorre rispondere per servire alle leggi della specializzazione: l’efficienza. Un dovere che rientra, secondo le riflessioni di Giudici, nell’etica di chi si assoggetta ai condizionamenti «di comodo», per una paga che consenta ogni sera di deporre le vesti dell’impiego quotidiano e, finalmente, «vestire i panni regali e curiali della sua condizione più vera», anche se la fatica del giorno obbliga all’oblio. All’interno di questo doppio gioco, condotto ugualmente a fatica, «l’intelligentsija», pur tendendo alla libertà della sua funzione ‒ «ciò che si intende fare o si fa in adempimento di un’intenzione, di una vocazione» ‒ si vede continuamente frustrata e alienata nell’essere ruolo, in virtù del fatto che, «dal cuore del miracolo», come recita una sua famosa lirica, si ode un’eco d’arte sbiadita: «[…] la cultura (ossia, in termini moderni, l’informazione) è oggi uno dei vari momenti della produzione, dove l’elemento di creatività resiste alquanto assediato entro margini minimi; i mezzi per produrla e distribuirla sono, in massima parte, mezzi di produzione». Ma «altro è il colore del mondo». C’è un tempo libero ‒ probabilmente «inutilizzabile», tuttavia reale ‒ che ricompone i pezzi del secondo mestiere, un’attività estranea, non lecita, ridicola e vergognosa, quasi «una roba da ricchi, come l’amore», per il ceto da cui Giudici confessa di provenire, «a metà fa la piccola borghesia e il sottoproletariato». Tornare a essere se stessi nella goffa abitudine di mettere insieme quattro versi significa allora operare nella dimensione dell’«illegalità», lontano dall’opaco condizionamento di mercato che valorizza l’immediatamente utilizzabile. L’attività poetica, in questo senso, è una merce senza corso, inascoltata e necessaria. Ed è proprio nel corpus saggistico La dama non cercata (1968-1984), in particolare nel testo Chi si scrive quei brutti versi?, che Giovanni Giudici sposta il suo punto d’osservazione di critico: dal «come debba scrivere» al «come debba vivere» lo scrittore, dalla qualità dei versi che ancora leggiamo all’importanza della loro esistenza, il «fatto che siano scritti, che qualcuno risolva di scriverli per manifestare in qualche modo la sua domanda di riconoscimento» o un atto di riappropriazione che si fa politico. Perché, prosegue ne La gestione ironica, fare poetico e fare politico operano proprio nella stessa direzione, in senso contrario all’entropia: «dove questa è tendenza all’indifferenziato, quelli tendono a organizzare e distinguere. E altrettanto si dica in rapporto all’alienazione, concetto che, mutuato dall’economia come l’altro dalla termodinamica, esprime una tendenza per molti aspetti similare: una tendenza contraria all’intenzione, al progetto». La poesia, insomma, è una cosa seria. Si impone già in un linguaggio liberatore, e sembra quasi non provenire da nessuno, dato che non si riconosce nella persona dell’autore, «ma solo nelle parole che si dispongono, in certi casi, in un certo ordine». La tensione progettuale che anima gli appunti diaristici degli anni ’60 investe successivamente una riflessione più matura sulle ragioni del farsi poetico. A partire dalla consapevolezza del peso sociale e della inconciliabile conquista di una propria identità professionale, Giudici si interroga nuovamente sui fondamenti della responsabilità culturale, sino a circoscrivere quella «faticata felicità» che solo la più vergognosa delle attività garantisce. «Per scrivere versi», prosegue Giudici, «non occorre indossare una particolare maglietta […]. È necessaria la consapevolezza che nessun passato, per quanto imponente e prevaricante, potrà impedire l’emergenza di quel pur minimo futuro che nell’illuminazione poetica individuale suggerisce la possibilità del grande evento». Ma cosa c’è dietro un poeta? E dietro la poesia? Soprattutto, dopo quanti chilometri si può intravedere il gioco di intenzioni tra scrivente e scritto? «Ragionando in prosa / Sullo scrivere versi / Scrivere in versi / Ragionando in prosa»: Giovanni Giudici tenta, in questo chiasmo ritrovato nell’Agenda inedita del 1992, di dare forma a una confessione intima e allo stesso tempo ragionata sui principi di armonia che sorreggono l’ispirazione, un’attesa che si guarda indietro ‒ come è la mossa primaria del verso ‒ e che ricompone tutte le tappe del poeta, volto a trasformarsi in amante competente e paziente nei confronti del suo linguaggio.

Beatrice Cristalli

Doppiozero

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