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‘IL SERPENTINO’ DI INNOCENTI

‘IL SERPENTINO’ DI INNOCENTI

I versi di Valerio Innocenti, Il serpentino (Giovane Holden), hanno senza dubbio qualcosa che li distingue, per quella sintassi scabra, per l’assenza frequente degli articoli, per la rima talora presente che  rimanda al ritmo di una filastrocca.  E si distinguono, in un panorama linguistico dove la parola perde sempre più il suo peso, per certe scelte linguistiche che attingono al registro alto. Interessante è l’accostamento della versione inglese accanto a quella italiana,  essendo l’Inglese una lingua che Valerio Innocenti tratta con estrema fluidità, fatto di cui ha già dato prova in altre poesie. La versione inglese acquista un ritmo nuovo, pastoso, coinvolgente. Come ha detto Joseph Tino, curatore delle poesie di Innocenti negli USA, sono poesie potenti e sensibili. Una malinconia sottile le attraversa, di chi vede la bellezza della vita e del mondo, ma allo stesso tempo sente come nemico lo scorrere del tempo. Se si guarda  intorno prende atto della alla decadenza dei costumi, della scomparsa di comportamenti moralmente corretti, della caduta delle illusioni. Il giudizio su questa società si affaccia sornione tra parole che hanno l’asciuttezza di un messaggio telegrafico. Una società che potrebbe mettere a dura prova anche la pazienza divina: “E se, incredulo,/un astrofisico/scorgesse tremulo/corpo che avanza,/di greve sostanza,/potrebbe pensare/che un pianetino/sia stato scagliato/da dito divino?” Innocenti fissa  la sofferenza attraverso correlativi oggettivi di montaliano ricordo: “Remoto il ritmo del mare,/arranca, irrequieto, tra sterpi./Raggi su rupi corruschi/serrano riarse radici./C’è raro frinire di grilli/e breve strusciare di serpi./La prova recide ricordi/da rosei stralli screziati./Lo attira orrido dirupo.” Innocenti coglie la bassezza delle voglie umane, lo stress di chi ottimizza il tempo del lavoro per sopravvivere, ma coglie  anche la turpitudine dell’abuso, l’immagine di perbenismo del carnefice, vede la viltà, la miseria, la fame, la maternità e la vita offese, il sangue di che si è sempre macchiata la storia. C’è nostalgia di passato, come di un’epoca più pulita, un desiderio di recupero d’infanzia, quando l’immaginazione era fervida e incantata. Il serpentino stesso, che si insinua come pensiero costante, è simbolo di  libertà, di anticonformismo, è una ricerca di gioia. Di nostalgia e dolcezza si avvolgono immagini cariche di sensualità e il verso si fa morbido: “cingesti d’assedio/la mente e la pelle/col tocco più lieve/ancora il mio cuore/di allora si imbeve.” Intanto il tempo che passa trascina con sé una paura che scava e poi si diffonde tra i versi come  una nebbia: “in certi giorni sembra/che più veloce scorra/ la sabbia del tempo/che zampata di tigre/giocherà d’anticipo.” Del resto la raccolta si apre con una negazione d’eternità che abbraccia tutto l’universo: “anche le stelle muoiono/ nell’illusione d’eterno.” Né può essere una consolazione il fatto che la morte “leviga i corpi”, restituendo una momentanea e illusoria bellezza, che rimanda alle immagini delle sculture nel marmo: “Sembrano lisciate/dal soffio del tempo./Pietre viventi le/sue: emozionano/come involucri/di incanti/senza fine.” Ma per chi scrive, la poesia rimane, per fortuna o per scelta, cibo per la vita, cibo che non scade mai, basta acchiappare l’ispirazione quando passa e ti sfiora come una “lesta libellula”. Perché non c’è da fidarsi nemmeno dei sogni, “perché anche i sogni muoiono all’alba”. Sulla possibilità di un’era nuova, di un ritorno ad una società più equa ed umana,  rimangono dubbi. Sembra tutto negato da una risata sarcastica finale

Marisa Cecchetti

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