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IL PRIMO CAPRONI

IL PRIMO CAPRONI

Il primo Giorgio Caproni propone spesso al lettore testi di dimensioni inusuali per l’epoca: testi lunghi, con un impianto colloquiale-narrativo, in anni in cui la poesia italiana è attraversata dalle prove di una lirica condensata, di stampo ermetico, che predilige le folgorazioni, le illuminazioni, la proposta di un linguaggio criptico e alto. Tuttavia, sia ad una impressione visiva che alla prova di una lettura ad alta voce, qualcosa nel ritmo non è così apertamente esplicito, così apertamente narrativo come l’impianto apparentemente colloquiale  può far sembrare a prima vista. Colpiscono infatti le parentesi, che spezzano il verso, che inseriscono un contro-canto a voce bassa, la rifrazione interiore del pensiero del poeta, come se la poesia scorresse su due tempi, uno esterno, dichiarato al lettore, e uno interno che scorre sui suoi binari (le parentesi appunto) nella mente dell’autore. Uguale funzione hanno i continui enjambement che prolungano il verso nel successivo ma impongono per ciò un ritmo diverso, inaspettato, quasi claudicante, con il verso che va spesso a spezzarsi e concludersi là dove non ci si aspetta. In questo ritmo così frantumato tuttavia la musicalità, quella di Caproni, di cui vale la pena ricordare gli studi di violino e di armonia musicale e la grande passione  per le opere liriche (da Mascagni a Weber), è continuamente ricercata in un gioco di rime e assonanze che prosegue regolarmente, da un verso all’altro. “Ad portam Inferi”  fa parte della raccolta Il seme del piangere,  composta per la morte della madre Anna Picchi, e presenta i nuclei principali della poesia di Caproni; quello che Omero, agli inizi della letteratura occidentale, immagina come luogo dell’ultimo incontro tra Odisseo e la madre Anticlea, l’oscuro paese dei Cimmeri avvolto dalle nebbie, dove i morti non hanno più memoria di sé è una stazione piena di fumo e nebbia, in cui la madre è passeggera provvisoria; il tavolino freddo su cui poggia la mano, il cappuccino freddo che cerca di bere sono i segni di questo luogo di attesa; siamo fuori dal tempo, l’orologio è fermo, e nessuno può dare indicazioni sulla meta del viaggio, il capotreno non c’è o non può dare notizie, i treni “vengono e vanno senza fermarsi” e aprono e chiudono le porte vuote da cui nessuno sale o scende. I segni della non-vita  ci sono tutti: le chiavi di casa sono state scordate, l’anello del matrimonio di Anna non è più al dito, lei stessa vorrebbe ricordare ma non ricorda e nella sua mente marito e figlio si sovrappongono, né sa concludere le frasi appena iniziate sulla cartolina di saluti… Nell’inquietante e angosciosa sala d’aspetto si aggirano solo cacciatori e cani, che annusano il fagottino di Anna e riflettono nel loro sguardo liquido e triste “la nebbia del domani” che la attende: forse ultima allusione alla caccia infernale, non più violenta come quella dantesca ma mesta e dimessa, dove la preda – Anna si è già arresa da tempo. Il “cane del rimorso” ancora invece insegue il poeta che, come dice in un altro testo della raccolta, “Ultima preghiera”, vorrebbe pregare la sua anima di consegnare ad Anna-Annina un ultimo saluto, che la farebbe arrossire perché è una parola d’amore mandatale da “suo figlio, il suo fidanzato”.      …

Rossana Levati

Lombradelleparole

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