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LE SEMBIANZE ESTREME DI GERMANI

LE SEMBIANZE ESTREME DI GERMANI

Non è un paradosso: la parola poetica, negli istanti più decisivi delle sue interrogazioni, deve assumere la forma di un docile fantasma, ricorrendo, se possibile, a una severa asciuttezza, e a una specie di auto-dissolvimento; in molti casi deve, addirittura, sfiorare le regioni dell’indicibilità e dell’azzeramento, perché l’acuta risonanza del vero è soltanto avvertibile nel gorgo del silenzio, e a partire dal silenzio (la verità è istantanea, accecante: e non pretende che il buio). Ce lo dimostra pienamente Mauro Germani con il suo ultimo libro di poesie, Terra estrema (L’arcolaio, testi critici di accompagnamento, assai puntuali, a cura di Marco Ercolani e di Fabio Botto). Germani condensa, stringe e concentra immagini di vertiginosa convulsione, entro le quali si muovono e si accendono, implacabilmente, oscillazioni ed esplosioni, fuochi ed enimmi, spasimi e tremori; e aperture di abissi, folgorazioni, battiti, lacerazioni. Eppure, questa grumosa e incandescente galleria di immagini e di eventi, sospinta da feroci pulsioni e da interne contrazioni, da slanci delicati e da paurose voragini, si mostra e si manifesta per il tramite di una lingua vigile e cauta, anzi secca e determinata, che incamera e proietta la vibrazione di un’alta e oggettiva sentenza, mossa da un’obbligante, superiore e implacabile legge. La poesia è davvero, qui, la riva ultima, la più verticale mèta espressiva che sia concessa all’uomo per significare il fondamento essenziale della realtà, coincidente con l’irreparabilità di un dolore incomunicabile e incomprensibile: i versi lambiscono la terra estrema che finalmente corrisponde a quell’immenso buio, fitto di lame e di domande irresolute, ma si muovono con una nobile circospezione, rinunciando a qualsiasi timbro enfatico o tragico ed esprimendo, invece, l’oscura  ineffabilità degli eventi con un dire potentemente scarno e lapidario, e perciò ancora più caustico, più duro, più incisivo. A un certo punto, poi, la poesia avverte la propria insensata impotenza e si trasforma in prosa: parrebbe una sorta di resa di fronte all’incedere del dubbio, del tormento, dell’attesa; ma è solo, diremmo, una provvisoria risoluzione che sembra aver trovato, per un momento, il dono di una finale, bruciante rivelazione, in cui la risposta è, tuttavia, annichilente e amara: ché tutto il mondo esplorato e analizzato appare vano e imponderabile; e poi la stessa gola, dopo tanta fatica, resta povera e disarmata, afona e nuda; e senza alcuna via di uscita.

Mario Fresa

Larecherche

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