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SEGHETTA: IL SILENZIO E IL CUORE

SEGHETTA: IL SILENZIO E IL CUORE

Evaristo Seghetta In tono minore (Passigli). La vita, giorno dopo giorno, indagata con l’occhio dell’etologo che studia se stesso, più che allo specchio – oserei dire – al microscopio, ripercorrendo il film di quei minimi gesti apotropaici dietro i quali si ha il presentimento o la speranza che possa nascondersi, se non l’ubi consistam, almeno una possibile via di fuga dall’insensatezza, presagita e temuta soprattutto in mezzo alla gente, quando la gente è troppa e la massa è una somma di solitudini.  Una via di fuga salvifica, che restituisce il coraggio di vivere proprio grazie alle nugae della giornata, quand’esse tornano a scorrere all’indietro – moviola del cuore – proiettate d’un tratto nel ventricolo del cuore dalla luce improvvisa d’un lampadario che si accende in un luogo vicino e remoto, domestico e ignoto, sulla linea dell’orizzonte davanti casa.  Corrono incontro agli occhi intere sequenze, scene nelle quali il poeta si è impegnato nel salvataggio di anonimi testimoni dell’essere dall’annichilimento, dal tuffo nella deriva dell’oltrevita, dal buio che segue alla conclusione della proiezione dell’ultimo fotogramma cui la luce ha ridato un palpito: un lombrico spiaggiato sui sassi, una lucertola semiannegata e la mano dell’uomo che soccorre in silenzio i suoi compagni di viaggio.  Per l’uomo il lombrico e la lucertola non hanno voce, ma il poeta è un etologo dell’anima, è curioso di lei, ne ausculta i battiti, i respiri, i sospiri, riconosce la musica dell’essere anche quando gli atomi della materia la eseguono in tono minore. Ne nasce una poesia che ha molto della preghiera di ringraziamento. Evaristo ha raggiunto quella stagione in cui vivere diventa innanzitutto guardarsi vivere, non è più o non è ancora il tempo del rimpianto, l’attimo di chi vive nei ricordi e dei ricordi. Guardarsi vivere è possibile solo nel momento in cui, uscito stremato dal mare delle brame, l’uomo contempla con occhio mondo il percorso alle spalle e ha l’impressione d’essere lo spettatore del viaggio di un altro. Solo ora il poeta può conoscere l’uomo che non è più. E’ un’esperienza che si vive in silenzio, male si sposa con la parola.  E’ un’esperienza perturbante, assetata di silenzio, e che di silenzio si abbevera. A lungo nel frastuono della vita l’uomo ha procrastinato l’esperienza del silenzio e adesso quasi d’improvviso scopre attonito che il silenzio non è mai assoluto silenzio: è un dialogo, c’è qualcuno che puntualmente risponde, è un canto in tono minore. E’ l’ultima Thule della parola, dove essa, nell’istante medesimo del suo non essere più, tocca per grazia la soglia d’una più universale significazione. Il silenzio è ciò che la parola vorrebbe e non sa dire. La poesia di Evaristo è tutta percorsa dalla vibrante commozione d’un moto di approssimazione al silenzio. Non all’indicibile, proprio al silenzio.  Attingere l’indicibile sarebbe raggiungere un luogo sconosciuto. La nostalgia dell’approdo al silenzio ha invece il sapore del reditus. Ciò che trovo più toccante nella voce di Evaristo è la capacità di rispettare quello che vorrei definire un foedus poetico, un patto col lettore ancora fondato, nonostante le distruzioni del Novecento, sulla superstite e tenace fiducia nella possibilità di riconoscere e condividere la ‘poeticità’ dell’esperienza esistenziale.  Parliamo di una dimensione ontologica che sempre meno oggi assomiglia a una koiné, a fronte dell’indubitabile dilagare dell’impoetico, che mette tutti d’accordo. La misura classica che ràdica alla terra la poesia di Evaristo, avant le déluge, è la fiducia nella intelligibilità del mondo, alla cui oscurità il poeta oppone una luce occidua, vespertina eppure non crepuscolare, che illumina senza abbacinare, che accarezza con un suo tepore inesorabilmente declinante.  Allo stesso modo la voce è la voce di un reduce che il viaggio l’ha già portato a compimento, ha già attraversato le acque infide del disinganno e ora  pronuncia un monologo che sente di poter dire solo sottovoce, appunto in tono minore. Eppure sarebbe riduttivo chiudere questa poesia nel rimpianto che è proprio dell’elegia.  Ad affollarla non sono tanto i fantasmi di ciò che non c’è più, quanto piuttosto le minime sembianze, dicevamo, le minime occorrenze del teatro domestico.  Il poeta qui, più che un uomo che ricorda, è un uomo che guarda: e, guardando, scopre con gratitudine d’aver imparato ad accettarsi.  Forse solo adesso vede chiaro che la meta del viaggio era l’approdo a un equilibrio che non è né rinuncia né rassegnazione ma l’agnizione di sé, a valle d’un’intera vita in cui il protagonista a lungo si è interrogato – come capita a tanti se non proprio a tutti – sul ruolo che gli era stato assegnato.  Adesso, compiuto il viaggio, e quando forse è tardi per intendere a pieno il canovaccio, l’attore ha capito chi era il personaggio che egli ha incarnato.  Ma la dignità di un uomo sta nel non negare gli errori, anzi su quelli il poeta saggiamente e coraggiosamente costruisce la propria identità.  Questo è un altro aspetto peculiare del rapporto di Evaristo con la poesia: il dogma dell’identità. L’identità di chi prende la parola nel testo poetico ha vacillato paurosamente innumerevoli volte nel secolo scorso, ben prima di arrivare al beckettiano “Non io”, dove la voce abiura il principio d’individuazione.  Nella poesia di Evaristo invece l’io ancora si nutre del dono di sé, ha ricevuto in dono la propria identità e come un dono la offre al lettore portandolo per mano in un terreno comune dove è anche di lui che si parla. In questo si esprime la fede in un umanesimo che non recide la sacralità delle proprie radici. Anche quando il poeta decide di abbattere il ciliegio malato, versa del vino nel fusto scavato dal morbo e la libagione rivela desta la coscienza degli ancestrali riti funebri che hanno educato il rapporto dell’uomo con la morte. Non credo che questo debba essere l’epilogo del viaggio di Evaristo dentro la poesia, ma certo il susseguirsi dei testi emana un ‘pianissimo’ che sembra lentamente abbassare il tono della voce.  E il tono sembra essere quello di una conclusione: dopo le interminabili vicissitudini del giorno, la poesia di Evaristo entra nel tempo (nel tempio) di Ecate, la divinità che accompagna i viventi nel regno dei morti.  Avalla quest’impressione la frequenza così importante della luna soprattutto nella prima parte dell’opera.  Già leonardesca e leopardiana interlocutrice dell’uomo viso a viso con se stesso, la luna campeggia in molte di queste pagine che aggiungono un capitolo alla poesia offerta alla dèa “amante della solitudine”, secondo Esiodo.  In questo raccoglimento, tinto spesso e giustappunto di luce lunare, il poeta insiste sul valore del silenzio, sul bisogno di silenzio. Guardare e tacere disegnano una disciplina interiore che si riaffaccia reiteratamente in queste pagine, unitamente alla ricorrenza di lari zoomorfi (gatti, civette, cinghiali, lupi, anatre, poiane, galline, formiche ecc.) accasati in uno spazio anacronisticamente rurale rispetto alla tanto più spesso ricorrente poesia urbana cui ci hanno abituato gli ultimi decenni.  E c’è piena coscienza di questo, nel poeta, che definisce la sua una “apostasia malinconica”, consumata “dove l’uomo arretra e la Natura avanza”.  Si esprime in ciò il bisogno di ritrovare un respiro del tempo oggi soffocato dall’ansia della velocità: a questa il poeta contrappone la nostalgia della perennità come esperienza pudicamente sognata e mai vissuta. Evaristo è moderno nel suo essere antico, è moderno perché non fa nulla per esserlo. Capita ad alcuni poeti di scrivere ogni tanto poesie che potrebbero essere retrodatate ad epoche remote: Evaristo è uno di loro.  Allo spazio naturale nel quale si muove la sua poesia lo lega in simbiosi un’empatia che gli permette di attingere note di panismo liberatorio come in questi versi memorabili: “Eppure, torneremo liberi, / lievi, tra le braccia sfilacciate delle nuvole, / sospesi ai cirri… E, se cadremo, / sarà soltanto pioggia.”  Questo paesaggio psichico cala l’esame di coscienza, sul quale il poeta torna quasi ossessivamente,  in un clima di misericordia che abbraccia il sé col resto del mondo in un presentimento di palingenesi da cui saranno rimesse le colpe. Un verso mi pare emblematico a spiegare il ruolo salvifico che in questo processo assolve l’esercizio della poesia: “Ricorderò i luoghi in cui non sono mai stato”. Far poesia redime, questo sembra volerci dire Evaristo, anche quando riflette sul destino dell’essere  umano (apparentemente immutabile), agonista del dolore, mentre pedala sotto il sole,  “quando il sole si siede in mezzo alla strada”, e l’uomo spinge col cuore più che con le gambe la bicicletta sillabando una poesia che oppone a Ecate Amon-Ra. Certo, potente e inquietante è la forza distruttiva e autodistruttiva non solo della mente ma di tutta la materia, e tuttavia se dovessi ritagliare un passo che racchiuda la poetica di Evaristo sceglierei quest’immagine: “i calcinacci della speranza”.  C’è dentro la reminiscenza del soldato della speranza ungarettiano, ma c’è dentro anche il betocchiano ‘manovale della carità’.  Né quest’immagine è in conflitto con l’identikit del poeta come uomo sempre “sul piede di partenza”.  Ma finché è qui, hic et nunc, il poeta resta un bambino stupefatto e affamato di metafore che, prima di diventare musica della voce, gli sgorgano dagli occhi ansiosi d’accogliere lo splendore della realtà.  Solo al poeta puer poteva venire in mente l’immagine del treno del vento, penso. Chiude il libro un intenso profumo escatologico che non rinuncia alla leggerezza né a un sentimento d’irriducibile fraternità col passerotto ucciso dal gatto o con Enrico, l’amico metalmeccanico “che non sa, non fa filosofia”.  Aleggia nel finale (nobilitato dalla poesia dedicata al padre, la più bella della raccolta) l’evento forse incombente d’una possibile conversione, preconizzata in un caffè la cui barista filippina mal sopporta l’uomo che, taciturno (eppure in dialogo col suo silenzio), scrive “su un taccuino, per ore, / al prezzo semplice di un tè”.  Si chiede essa, e se lo chiede il lettore, cosa è successo nel silenzio del cuore di un uomo che da bambino “calciava la luna”, portava traballando un bicchiere di vino ai suoi vecchi seduti sulle panche di pietra; saliva in fretta le scale della prima elementare, le scale della vita; giocava all’altalena con la corda sonora della campana del paese che scandiva l’ordinotte; cosa è succeso il sedici gennaio davanti a una tazza vuota. Forse l’uomo ha sussurrato: Rimetti a noi i nostri debiti, e voleva dire Riconsegnaceli, perché attraverso  la coscienza dell’errore possiamo essere degni del perdono. A noi, intanto, basti il dono della sua poesia.

Sauro Albisani

Prefazione

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