0

LE NARRAZIONI DI CUCCHI

LE NARRAZIONI DI CUCCHI

Al suo pluridecennale canzoniere, Maurizio Cucchi aggiunge Sindrome del distacco e tregua (Mondadori), opera commossa e lucidissima, attraverso la quale ripropone il proprio inimitabile percorso di uomo, prima ancora che di letterato, in una serie di viaggi spazio-temporali dell’Io che si cerca, attenuandosi a tratti nel “Je est un autre” per così dire, decentrandosi in mille occasioni e personaggi. Si tratta di un libro costruito su otto sezioni, otto narrazioni in versi e prosa, prive di trama, di fine o inizio, e delle quali il significato ultimo risiede nel miracolo della possibilità, nella forza del ricordo, nella magia dell’indeterminazione: “L’epilogo quale che sia non conta. Mai / Così il meccanismo, la banale trama. Conta / […] la rapsodia sparsa e sempre minuziosa / delle circostanze” (Il penitente di Prip’jat’). Dichiarazione di una poetica sulla quale si infulcra l’intera opera di Cucchi, fin dalle prime prove di Paradossalmente e con affanno (Teograf 1971) e che trova costante alimento nell’assoluta libertà di pensiero, nella pietas, nella consapevolezza di un dramma esistenziale che tutti ci accomuna. Una poetica portata sulla pagina con fantasia da fanciullo e sagacia da intellettuale, in un provvido cortocircuito tra realtà e immaginazione: “Che paesaggio, piano, indifferente, / serenamente bigio nell’oceano, / […] / e io, la spuma tranquilla alle mie spalle, / in appoggio, slittavo in un sorriso nel vento / d’improvvisa adesione” (Improvvisa adesione). Già la prima poesia apre, quasi filmicamente, a un tempo remoto, “Dopo la notte rannicchiata / il vicolo del ghetto amico / […] la scritta IHS e sulla croce la data / per me formidabile: 1601” (ivi). Al salto diegetico, segue il respiro della dimenticanza, che ferma il maglio dell’azione e relativizza la presuntiva sapienza: “io vorrei prosperare nell’oblio / che disdegna nella sua salute l’azione” (ivi), lasciando campo a una verità di cui il “viaggiatore vile” attenderebbe che riempisse il suo “poco bagaglio” (ibid). Pure costante ritroviamo l’accorata attenzione ai miseri della Terra e la citata sezione Il penitente di Prip’jat’ (città abbandonata, presso Chernobyl) ne è lunga testimonianza: “Nella foto di Kostin, lei è di spalle, avanza / […] vecchissima arranca verso un dove / di patria, un dove di pace e morte”. C’è il respiro della luziana Dottrina dell’estremo principiante, in quest’opera, il dolore carsico dei giorni, sempre però filtrato da quell’aplomb dialettico in cui Cucchi è maestro. Sono una palestra, i giorni, dove il Soggetto – uno dei tanti “microrganismi senza volto sociali” (Minuta gocciola) – domanda “se sia il caso o la mano / a presiedere infallibile / eppure misteriosa il gioco / sempre compostissimo / di queste insondabili armonie” (ivi). L’accento però cade sempre sulla coscienza, quando “anche la pensosa pietra / riesce a sognare la gioia quieta” (ivi). Versi d’alta significazione, che possono forse richiamare il pathos delle “lacrimae rerum” virgiliane. Anche in Antichi Bestioni, sezione aperta dall’analessi di un tempo infantile – un invariante, in Cucchi, questa primeva innocenza in noi silente – animali finti, docili al bimbo che ci gioca, hanno consapevolezza, ma senza malizia. Un ideale che alla violenza e al sospetto sostituisce latamente dolcezza e curiosità: “Io avevo la mia clava bene in pugno, / ma osservandolo negli occhi, / negli occhioni spalancati di stupore / quell’istante, ho avuto pietà / come fosse un fratello”. C’è un’estetica (la greca aisthesis – conoscenza sintetica del bello) e c’è un’etica, nell’innocenza, come nella frugalità. Nel viaggio, l’“homo aestheticus”, contrapposto all’infelice, magari arrogante, “homo oeconomicus”, è visto in semplici comparse, come tale Giuseppe, “El Pinìn”, contadino dalle arcaiche abitudini, o in protagonisti come Petrarca che soggiornò a Villa Linterno (periferia milanese), soggetti di Felicità frugale; o anche nella pescivendola Michelline, nella lavandaia eroina Catarina Ségurana, figure del vecchio quartiere nizzardo Babazouk, nome che intitola la settima sezione. Apparizioni, diffrazioni di un io peregrinante, attraverso cui si assapora l’affabile dimensione di luoghi marginali, a Milano – la Cascina Monluè, la Martesana, i vecchi capannoni alla Bovisa – come a Nizza – rue de la Providence, rue de la Croix – dove, in rue Saint-Hospice, ci imbattiamo nell’angelica beltà di un volto femminile disegnato su un muro e presto dilavato dalla pioggia, “Ma quando poi torno a cercarla, / io non la trovo più. Niente. / […] La pioggia, / forse, o la sorte comune del bello / venuto dal basso, da povere mani / sapienti” (Babazouk). È allora l’io passibile, armato di cultura e d’umiltà, a rivalutare l’esserci, oltre ogni torva economia. È il soggetto di Un idiota sociale, che domanda al destino “Quale sarà, di tutte, la vera dimora a cui ritorno?”, e il bambino che è in lui già si risponde “là dov’era il letto più morbido del mondo”; o il vecchio, che “spingeva / lentissimo il carrello di provviste” e, a ridosso della fine, seduto al pianoforte dice “…Ero così contento…”, con quella gioia semplice che illumina tutta l’immensità.

Giovanni Parrini

L’Immaginazione

17

Scrivi un commento