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LA POTENZA ESPRESSIVA DI IRNO SCARANI

LA POTENZA ESPRESSIVA DI IRNO SCARANI

Irno Scarani ha abitato a lungo, negli anni settanta, un abbaino in un palazzo d’epoca a Città Studi nelle vicinanze del Politecnico di Milano e se ne parla in Un quotidiano esistere (Edizioni del Leone). Un abbaino  con i colombi che “scuotono le tegole” e le rondini “fiondanti sui lucernari”,  tra “camini di rossa terracotta / sentinelle di favole streganti”, sotto le sciabolate della luna e gli strappi del vento. Si trattava di locali angusti che, al di là delle fortunose e fortunate occasioni di stagione e di paesaggio, hanno costretto l’occupante a condizioni abitative disagiate e a misurarsi con gli aspetti più agri e ustionanti dell’esistenza. Quell’abbaino è stato una tana “confinaria”, un reclusorio “della solitudine e dell’abissale pensiero” che hanno spinto Scarani a scendere sempre più giù lungo un percorso dell’interiorità (“così esplorando me stesso / e il senso della vita”), a inseguire sogni che hanno “ali di sole” e che riescono a cancellare almeno a tratti i demoni invisibili che “ammorbano la terra”. Quell’abbaino è stato “il vascello grigio-blu / dal fumaiolo arcobaleno / e sospeso nella notturna immensità / tra sacrali lidi / e segnali di morte”, che ha consentito a Scarani di farsi “esploratore del nulla e del mistero”, con uno sguardo sopra “l’abisso dei viventi” e sull’ oscuro dolore che “piaga le anime smarrite”, ma anche con la vista lunga da un osservatorio sulla vita che continuamente rinasce dalle proprie ceneri (“tutto rinasce al di là di ciò che muore”). L’esperienza milanese di quegli anni ha fatto di Scarani il cantore sorprendente di un mondo metropolitano di gente anonima, della vita quotidiana dei grandi casamenti popolari e di tutte le sue manifestazioni di ordinaria follia e straordinaria normalità. Un quotidiano esistere, appunto. Casalinghe, cameriere e baby-sitter, vestaglie, bigodini, ciabatte, parole scambiate da una finestra all’altra, saluti, pettegolezzi, “beghe di cortile”. E ancora: la radio che suona, il profumo del caffè o di qualche altro cibo che si va preparando nelle cucine. Bambini che giocano, vecchie e giovani nascoste dietro le tende, vicini che si spiano. Gatti appollaiati sui muretti delle terrazze, sulle tettoie, in cortile. E cani al pascolo nel giardino, dominato dall’albero di cachi, dal ciliegio e da una “palma ferita dal gelo” che rigermoglia lentamente. Una ricchezza e totalità della vita, come rilevava Cesare Viviani, che si fa nella poesia di Scarani letteratura di carne e sangue, in un continuo interrogarsi sulle ragioni profonde e assolute del vivere. Dietro all’ansia esistenziale, all’incalzare dell’ossessione del buio e del vuoto, subito allontanate dalla “pioggia di luce” che arriva con l’alba ad “animare visi prosciugati / e labbra sigillate, / inseminare negli occhi sogni e speranze”, intanto “costellando di sogni e aurore / le anime naufragate / nel sordo grigiore dei giorni”. Perché “il sole rincuora i volti cadenti” e, quando manca, il cielo, morso da gole nere, “si colora di cenere e i colombi volano inquieti” e le ombre spinose piombano sulla città. E, a sua volta, luce delle stagioni è la primavera che arriva a lenire ogni “insondabile ferita” e “insemina lo spirito” con la sua “verde forza” che fermenta. La primavera non fa rigermogliare solo alberi e fiori, ma gli stessi cuori degli uomini illividiti e resi inerti dall’inverno dell’esperienza fatto di inganni e illusioni. “Con il cuore assetato di natura”, Scarani, dalla prigione metropolitana e dal suo“ronzante babelico”, esce verso le campagne e le colline dei dintorni, in Brianza o in Valtellina… in cerca della “luminosa quiete”, dei “fulgenti chiarori”, dell’azzurrità del cielo, dei “sudari di sole”. E l’esperienza è quella di una natura sentita francescanamente come risanatrice e insieme esperienza del divino che serpeggia nel mondo. “Tutto è profondo e sfuggente” e ”tutto muta nel tempo” che divora ogni gesto e parola. Eppure, proprio là nell’abissale luce, nel cuore più intatto, la natura parla il suo  allusivo linguaggio di simboli a un uomo che è “cieco sulle rive del mondo”. Come interpretare quei segnali? La risposta sembra quella di abbandonarsi a un istinto profondo, al richiamo che viene dalle zone del più profondo. Unico modo, forse, per evitare la sconfitta o renderla, comunque, più sopportabile. Un descrittivismo iperealistico da dopo linea lombarda si alterna e intreccia, in Scarani, a un espressionismo carico di immagini dal gioco metaforico, quasi barocco, e fino a intermittenze visionarie, in un tessuto stratificato e ricco, decisamente originale. Secondo un passo inconfondibile, con una pronuncia personale riconoscibile, una forza di linguaggio tesa e dura che a tratti si infiamma e a tratti si apre a tenerezze luminose. E con una tendenza a creare parole, specie i verbi: vere e proprie forzature espressionistiche, felici neologismi capaci di rappresentare in profondità le situazioni, le atmosfere, le singole figure (s’intana, s’invettano, lacerii, s-ciabattas’ingremba, ventaglia, bisbeticano, scorzati, ecc.), alla ricerca della “la parola che non mente”. Come qualcuno ha detto, un italiano “pregnante”, quasi in formazione, quasi alle origini: potente e possente là dove serve la forza e lieve e tenerissimo là dove si impone la grazia.

Paolo Ruffilli

Prefazione

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