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LA STELLA PROMESSA DI CALABRÒ

LA STELLA PROMESSA DI CALABRÒ

Siamo stati abituati dalla ormai imponente e prestigiosa letteratura critica sulla sua poesia ad identificare Corrado Calabrò con il poeta del mare e dell’amore. Queste sono infatti le due direttrici principali lungo le quali si snoda la sua prorompente produzione poetica fino ad oggi, anche se sono percepibili ad un orecchio attento altri spunti, comunque presenti nella complessità del dettato lirico. “La Stella promessa” (Mondadori) irrompe con una forza innovatrice sorprendente a scompaginare l’assetto dato dai due assi cartesiani dell’amore e del mare all’immagine della poetica di Calabrò.  La prima parte della silloge, “Roaming”, infatti, costituisce l’elemento profondamente innovatore e, per certi versi, disorientante, aprendo un nuovo versante nell’ispirazione poetica dell’autore. Erano duemila anni, da Lucrezio, che la fisica non costituiva materia di poesia; di vera, emozionante poesia. La novità non riguarda solo l’aspetto formale: si tratta infatti di un poemetto, ma Calabrò ci aveva già dato prove della sua versatilità compositrice nell’affrontare dimensioni liriche articolate e complesse, quali “Il vento di Mykonos” o “L’esorcismo dell’Arcilussurgiu”. La novità vera sta nel tema dell’ispirazione e nel livello di abilità raggiunto dall’autore nella contaminatio tra diversi stili espressivi e registri linguistici. Come nel romanzo “Ricorda di dimenticarla” (finalista al Premio Strega nel 1996) l’input iniziale è dato da una dimensione onirica, che apre la visione su un frammento del passato del poeta, un fotogramma strappato alla memoria (e all’oblio) che contiene già in sé, in nuce, alcuni motivi importanti che saranno man mano sviluppati dall’inchiesta poetica. Il sogno, innanzi tutto, dimensione parallela alla vita reale, che può farsi incubo shakespeariano ma anche suggestiva lettura del non detto, esondazione non voluta e irrefrenabile delle pulsioni rigettate dalla censura razionale della consapevolezza diurna. Poi la luna, enorme faro che come un occhio di bue illumina la scena e sdoppia l’immagine del poeta ragazzino in un “altro da sé”, dando vita alla sua ombra che lo “marca stretto” nel campo da gioco. Ma Calabrò non guarda alla luna con sgomento leopardiano, né è soggiogato da un certo suo fascino algido e indifferente che ha stregato gran parte della lirica occidentale. La Luna, come una boccia su un biliardo cosmico, sobbalza per effetto dell’impatto di un’altra luna che in un attimo “ci veniva addosso !”. Si tratta di “un asteroide grande quanto Creta apparso dal nulla all’improvviso”, eludendo l’osservazione degli astronomi intenti a “scrutare col nuovo telescopio gli spazi siderali per scoprire altri pianeti simili alla Terra”. Da quel momento “la Terra viaggia nello spazio con la memoria avulsa e senza bussola”, come un treno deragliato dai binari, in preda a uno straniamento progressivo che si annuncia con il sorgere dell’alba con due ore di anticipo. “Noi siamo le nostre abitudini; se si stravolgono quelle, chi siamo ?” s’interroga il poeta. La vita entra improvvisamente in una dimensione ossimorica: l’incertezza è l’unica certezza: sbalzato dalle proprie consuetudini e dai rassicuranti punti di riferimento, l’uomo in sella a questa “astroterra” impazzita deve inventarsi un altro ubi consistam, se non vuole consegnarsi al suicidio come “unica via di fuga”. “L’immaginazione è più importante della conoscenza “, ha detto Einstein, e Calabrò, appassionato di fisica e di astrofisica non meno che di poesia, gli fa eco: “gli scienziati, con tutti i loro calcoli, sono sorpresi dagli eventi” e “gli astrofisici…non sanno che tra Venere e Marte la nostra eclittica è un sogno guidato; guidato dal caso, ovviamente”. Ritorna il sogno, dunque, come in apertura, e si slarga dalla dimensione individuale ad una più generale, umana e cosmica, un campo di gioco che abbatte le barriere dello stadio e si espande all’infinito, diventa un tappeto scuro trapunto di stelle e di pianeti, contorto dai buchi neri, soggiogato dalle “non regole” del caso” e “il figlio dell’uomo non sa dove andiamo né quanto resteremo alla periferia della Via Lattea”. Ai nostri giorni non c’è più un dio da interrogare, per gli uomini comuni “è vero che esiste solamente quello che appare in televisione”: il totem moderno che non ha bisogno di pizie per decifrare il messaggio. Ma esiste ancora un sacerdote, capace di dar voce all’oracolo, ed è il poeta, “Solo al buio c’è concesso di vedere quel mondo cui il giorno ci fa ciechi”: spente le luci ed attutiti i rumori del giorno, nel velluto della notte la visione soccorre il poeta e gli apre scenari medianici in cui il ristabilito contatto con le forze della natura gli permette di compenetrarsi con il mistero della vita e dell’universo. Compenetrarsi ma non decifrare, poiché neanche al poeta è concesso sciogliere il Mistero: come “una docile fibra” egli può stabilire una sintonia con la natura conoscibile e inconoscibile, una comunicazione attraverso appunto un processo di “roaming”. Proprio grazie alla percezione privilegiata di quel mistero riesce a dare voce alle inquietudini e alle suggestioni che risuonano in tutto il suo essere. “Secondo le equazioni di Einstein spazio e tempo sono intercambiabili. Dunque perché non viaggiare nel tempo?” si chiede il poeta. Sincronicamente al viaggio dell’astroterra impazzita attraverso lo spazio si profila in “Roaming” un altro viaggio, che fonde passato-presente-futuro, in una sorta di “summa” che annulla le tradizionali distinzioni. Come nella citazione di Eliot posta in apertura, “il presente e il passato sono entrambi presenti nel futuro, e il futuro racchiuso nel passato”. Al poeta reso “cieco” dal giorno soccorre quindi la notte a sollevare le cateratte di un’impediente razionalità e a spalancare una straordinaria capacità visionaria: è nel sogno che può realizzarsi l’annullamento dei recinti spazio-temporali e il sonno non è obnubilazione, ma, al contrario, il salto nello specchio che, come in Lewis Carrol, permette l’accesso a un mondo “altro” e sorprendentemente vero, se si esce dalla gabbia della quotidianità. Così, ad occhi chiusi come un novello Tiresia, il poeta “indovina” la potenzialità delle forze sottese al “reale”, o meglio all’apparente; e il terremoto che annuncia la caduta dell’asteroide si sovrappone ad un altro terremoto, di cui il porta celebra il ricordo, quello di Reggio Calabria che ha segnato la sua memoria di fanciullo. Il lungo flash back narrativo che recupera l’avvenimento è solo apparente. Passato e presente si amalgamano in una identità di sensazioni, emozioni, paure e inquietudini che inglobano e danno forma anche a quello che ancora sembra non essere: “il ricordo perduto del futuro”.  La seconda parte di “La Stella promessa” riconduce l’ispirazione poetica al modulo dominante dell’amore. La straordinaria perizia versificatrice di Calabrò spazia dal poemetto al distico (“Come il sonno di mezzanotte/ è l’attesa del sonno senza te”) senza alterare la potenza della suggestione poetica. Torna la donna nella sua poliedricità ad ispirare il canto. E’ il suo primo sguardo a improntare l’oroscopo del poeta, la sua giovinezza a gonfiare il suo petto, è una gatta imbronciata, talvolta petulante o, al contrario, troppo silenziosa. Tante, e diverse tra loro sono le figure poetiche femminili di Calabrò, ma egli sfugge a tutte, proprio perché proteso alla ricerca di un ideale femminile inafferrabile. Ecco quindi che anche il tradimento si palesa non come sintomo di incostanza o frivolezza di rapporti, quanto piuttosto come conseguenza di una insoddisfazione di fondo che spinge il poeta verso un’inesausta ed inesauribile ricerca dell’appagamento sentimentale ed erotico: “Ti son venuto incontro e t’ho baciata, /già impiccato al bisogno di tradirti”. Pochi poeti hanno cantato la donna come Calabrò: nella sua poesia trovano un’armoniosa collocazione un’infinità di tipi femminili rispondenti all’immaginario collettivo maschile ed è esplorata ogni piega del rapporto uomo/donna. Che sia strega o fanciulla innocente, amante intrigante, complice o traditrice, dolce compagna o ammiccante sconosciuta, Calabrò trova nella donna una fonte inesauribile non solo di ispirazione poetica ma soprattutto di voglia di vivere. La donna è, in ultima e autentica analisi, “l’altro da sé”, la parte mancante dell’uomo, la sua metà e il suo alter ego ed è proprio attraverso la dialettica del rapporto uomo/donna che il porta insegue e persegue la scoperta e la conoscenza del mondo stesso. Le donne che incontra, e che talvolta ci nomina nelle sue liriche, non sono altro che maschere dell’amore, quello vero, che Calabrò insegue tenacemente, che ha la capacità di sorprenderlo alla gola e che scorre inesauribile nelle sue arterie. Articolata in due parti profondamente diverse tra di loro, la silloge mostra tuttavia una profonda coerenza ispiratrice che affonda le radici nel bisogno della ricerca, sia essa rivolta ad una dimensione esistenziale che sentimentale. Calabrò è animato da una profonda vena poetica ma anche da una sincera passione per la fisica; la disposizione alla speculazione scientifica e la sensibilità poetica si compenetrano, in maniera assolutamente sorprendente e insolita, in un logos che riscopre l’identità originaria di parola e pensiero. “La Stella promessa” è una possibile risposta, benché parziale ed allusiva, al nostro bisogno di conoscenza: è “la stella che abbiamo nella mente, quella che sappiamo di guardare”.

Fabia Baldi

Il Convivio

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