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PER MARIO LUZI

PER MARIO LUZI

L’esistenza è una colpa, già prima del cristianesimo e del peccato originale. La filosofia greca, quella in qualche modo riversa sull’uomo, nasce con il frammento di Anassimandro che parla della hýbris con cui ognuno di noi, venendo al mondo, osa offendere l’originario accordo e la perfezione dell’ápeiron, l’illimite. Ma è una colpa incolpevole quella per cui Mario Luzi quasi arriva a deplorarsi per aver alterato la purezza del non-essere. Proprio Mario Luzi, che, da grande poeta, semmai l’essere lo ha accresciuto di significati, nel rivestirlo di un senso e nel configurarne l’oscuro fondo. «Ti chiedo perdono di essere nato. Di esserci, di infliggere una macula alla purezza del creato, un grumo opaco alla sua trasparenza, un ingombro alla sua libertà illimitata». Ma come potrebbe l’esistente desiderare la condizione del non-esistente? «Può – Luzi scrive, per adýnaton – una entità chiedere questo all’essere?». Tuttavia, replica a se stesso, è proprio sul filo di questo paradosso, o in questa lacuna, in questi «abissi di denegazioni» che la sua presenza si espande, tesa a non affondare nell’ombra. Allora, con il lessico dei Fondamenti invisibili, deve essere vissuta una «vita fedele alla vita». Ti chiedo perdono di essere nato (Grafiche Fioroni) è il frutto della collaborazione tra la Rivista letteraria «Istmi» e l’Associazione culturale «La Luna». Pubblicato per il decennale della scomparsa di Luzi, il «quaderno» raccoglie una serie di files recuperati e testi difficilmente reperibili, fogli di diario che sembrano obbedire a una cronologia. Risalenti all’ultimo tratto della produzione luziana, Stefano Verdino rileva nell’introduzione. I testi qui riuniti, per concessione di Gianni Luzi, sono intervallati da opere grafiche, dettagliate, quanto alle ragioni che presiedono alla loro genesi, nella postfazione – I segni dello spirito – da Nunzio Giustozzi. Le opere grafiche non fungono da illustrazioni o da didascalie ai testi, ma costituiscono un «controcanto al testo», glosse senza parole. Assistiamo quindi all’incrociarsi di due ordini espressivi: se il nome è lo spazio della formazione di un senso che eccede i meri confini della percezione sensoriale, l’immagine parla la lingua dell’azione. Il quaderno non è una summa ma un precipitato, non è organico dal profilo della composizione, ma rapsodico, strutturalmente discreto. Si parla del padre e della poesia, di Mallarmé e della «maschera torva» di Mussolini affacciato alla finestra, del «lutto cristiano» e del razzismo. I temi sono la colpa di essere, la memoria, la spiritualità, l’assenza, la solitudine, la storia. Le cose che finiscono e che il tempo stratifica. Da quelle che non ci lambiscono soltanto, come la vita del padre, la cui assenza è «venata da un sottile rimorso»; e l’ambiguazione che la vita comporta andrebbe attenuata, con disagio anteriore e interiore. E le cose che comunque ci riguardano, la cui sparizione segna «una fase della storia privata di ciascuno». Memoriali ipostasi del tempo dileguato.  …

Elisabetta Brizio

Literary.it

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