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LE RAPSODIE DI MARCO ORTENZI

LE RAPSODIE DI MARCO ORTENZI

“I tempi teatrali” di un personaggio possono servire per “riconoscere l’essere in un attimo / in forme, in immagini tempi, in un presente attento, da mimare” (Atto di tempo). E in effetti è il tempo il vero protagonista di questo poema, Due rapsodie (Edizioni del Leone) di Marco Ortenzi, al di là dell’evidente dualismo che vede di volta in volta contrapporsi – o, viceversa, coincidere – le ragioni del personaggio in posa (un attore-fantasista) rispetto a quelle dell’autore del libro, che riesce bene a camuffarsi tra le pagine del testo. Due rapsodie si divide in due parti: la prima, intitolata “L’inverno del fantasista”, si caratterizza per le descrizioni specie serali e notturne, di “storie senza storia” vissute da compagnie di attori del teatro di strada, soprattutto comparse, guitti e funamboli (evidentemente disoccupati), “piccoli uomini che delirano” per uno “strano desiderio di nulla” (L’equilibrio aeronautico). Essi coltivano i loro sogni nella penombra di piazze malinconicamente deserte di “città sgretolate dal tempo”, ove la fanno da padroni bislacche presenze che si muovono sullo sfondo come spettri, anch’esse involontari coprotagonisti dello spettacolo: infermieri, cani randagi, yomini-sandwich, teppisti, prostitute. La seconda parte, “Tutta un’estate per scrivere”, mostra, al contrario, immagini che si collocano per lo più “lungo la linea d’ombra al confine d’un paese di sole”. Marco Ortenzi (sarà lui il personaggio della storia?) ora presenta al lettore “palme fiorite sul mare, mattinate sulla vetta della collina, giardini già conosciuti con il pensiero, zone di luce massima del mezzogiorno in città, albe d’aprile e malattie d’estate”. L’attività di fantasista-paroliere, per la quale l’attore è ingaggiato nella stagione estiva, lo spinge paradossalmente a trattare, nei versi della seconda sezione, temi e argomenti apparentemente di minore attinenza col lavoro teatrale; in realtà vengono finalmente alla luce tutti i dubbi e le incertezze legate ad un tipo di professionalità discontinua e saltuaria, oltre che carica di incomprensioni e amarezze: “L’estate è una rapsodia | quest’estate siamo piccoli attori | e cantanti confidenziali | rappresentiamo noi stessi | siamo tempi | forse è finita la rappresentazione | ma non l’essere rappresentativi”. La seduzione e il fascino di questi “giochi d’estate” di Marco Ortenzi, per quanto “improbabili”, non impediscono che anche la seconda sezione, al pari della prima, sia percorsa da un sentimento di profonda e complessa felicità/malinconia: sono gli umori propri del clown, “il mio tu impersonale.”

Francesco De Napoli

Literary.it

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