LA VOCE DI BRUNA DELL’AGNESE

LA VOCE DI BRUNA DELL’AGNESE

Tra i petits-maitres misconosciuti della nostra lirica recente, quegli autori rimasti in ombra forse perché inadatti ad abitare il tempo, o perché tesi a un assoluto sempre più inattuale, Bruna Dell’Agnese ha una fisionomia così nitida e icastica nella sua amara passione da farne una delle pochissime, autentiche eredi italiane delle grandi voci femminili dell’Ottocento: Emily Dickinson, Elisabeth Barrett-Browning, Christina Rossetti. In ogni sua raccolta, (a partire da Stanza Occidentale del 1985, introdotta da Attilio Bertolucci), la Dell’Agnese si misura col linguaggio come una donna misteriosamente ferita dall’amore, come una mistica arsa dal palpito azzurro dell’impossibile, come una temeraria e dolorosa avventuriera dell’anima; eppure il suo pathos si nutre di una paradossale quotidianità, si cala nelle occasioni più umili, cova tra le pieghe più delicate e segrete dell’esistenza domestica. Tutto ciò è vero anche e contrario. Sebbene innervata da un’intima, necessaria fedeltà al proprio destino, e dunque capace di durare, di insistere e persistere nei propri registri feriali, la voce di Bruna Dell’Agnese è, allo stesso tempo, percorsa da un vento, da un brivido, da un soffio invisibile che di continuo la rigetta più avanti, che inarca le parole come vele accendendo il suo cammino di un’inesausta febbre di orizzonti. Così ogni suo libro è il capitolo di un medesimo romanzo e un’escursione in territori ignoti. Anche gli Improbabili confini (Moretti & Vitali) vive, lentamente bruciando, di questo attrito. Da una parte, memore della grande lezione di Bertolucci, (soprattutto del Bertolucci della Camera da letto), la voce poetante si flette sulla vita degli uomini e degli alberi assaporandone la bellezza fragile e sfuggente, carezzandone con tenerezza e pietà le forme colorite e leggere; da un altro lato a intrigarla e turbarla è il mistero che alona certe occasioni ( una telefonata da un continente all’altro come un paesaggio marino avvinto dalla luna “all’ormeggio della notte”) sospendendole in una sorta di cavità vuota, fasciando la cosiddetta realtà di una nebbia onirica, di un profondo dubbio d’inesistenza. Presa tra forme opposte e  complementari d’esperienza, l’anima spesso vacilla come una “povera ballerina” o una trottola. Mentre osserva il tempo nel suo immenso flusso acquatico, e tenta di assorbirne la musica e il profumo, non può non avvertirne il carattere abissale, i tratti inquietanti, gli aculei “duri come uncini”; mentre evoca l’amore come “il respiro che ci fa vivere” non può fare a meno di coglierne gli aspetti sgradevoli e irreali: cos’è, a volte, l’amore di coppia se non un duello “senza misericordia”, assurdo come un “riflesso del nulla”? Benché votata allo spirito apollineo della luce e a quello dionisiaco della danza, la parola di Bruna Dell’Agnese testimonia,  avvitandosi dentro queste aporie, che oggi la poesia non può non coniugare desiderio e stanchezza, non può non stremarsi in una ricerca di verità,  in un ansioso bisogno di salvezza attraverso il tramonto dell’Occidente.  Resistere, per chiunque non abbia rinunciato all’attesa di un Dio che ci “ricrei”, non può essere che questo: abitare gli incerti, ondeggianti confini tra la terra e il cielo sapendo che ogni parola che ci libera è un “frutto nascosto” tra schegge di senso o rovi spinosi, e insieme un inno a tutto quanto, schiodandoci dalla rassegnazione invernale del mondo, sa gettarci verso l’ ”oscura esultanza” del rifiorire.

Paolo Lagazzi 

La stanchezza del mondo

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