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LA POESIA DI DARIO BELLEZZA

LA POESIA DI DARIO BELLEZZA

Non si è mai parlato tanto di Dario Bellezza come nei due mesi che hanno preceduto la sua morte, trascurando tuttavia il suo lavoro di scrittore e sfruttando cinicamente il suo caso umano. Lui se ne rammaricava con gli amici, consapevole della responsabilità di aver alimentato negli anni il suo personaggio disegnato dentro una condizione maledetta di stampo tardo-romantico segnata dalla “dannazione” (sua parola) dell’omosessualità. Proprio in quella circostanza, Bellezza aveva previsto il silenzio più assoluto dopo la sua morte. Come puntualmente si è verificato, in un’assenza critica tanto più evidente nei confronti del suo lavoro di poeta perché avvenuta a fronte di esaltazioni pseudocritiche, in questi anni, di poeti inconsistenti o molto meno consistenti di quanto fosse lui. La mancanza del suo nome e dei suoi testi rende monche e ancora più inutili alcune antologie uscite nel recente periodo, perché la sua poesia segna un momento importante nella vicenda poetica del secondo Novecento, il cui quadro complessivo perde rilievo senza l’energia drammatica della sua esperienza. L’ultimo libro di Dario Bellezza, uscito postumo, Proclama sul fascino (Mondadori) chiude il cerchio della sua ispirazione tornando ai motivi e all’ansia di ricerca dei suoi inizi, di libri come Morte segreta (1976) e Io (1983). Insomma, nella sua ultima produzione il tema dominante di Bellezza torna ad essere la morte. Non tanto la morte come evento ineludibile della vita nelle conseguenze del quotidiano, quanto piuttosto come tentativo mistico, dantesco, di superare la carne per attingere le vette della solitudine e dello spirito, tema che resiste in tutta la produzione e nettamente evidente nella successione di  Tutte le poesie (Mondadori). Nell’ultimo libro come negli altri due già citati, si parla molto di Dio e trova quasi approdo di pace quel bisogno religioso che attraversa e tormenta l’intera opera di Dario Bellezza. C’è sempre stata nel fondo della poesia di Dario Bellezza una disperazione sorda e lontana, che trovava solo parziale soluzione nella consapevolezza della libertà assoluta delle proprie scelte.  Perché l’autore, mentre si scopriva quasi con rammarico escluso dalle gioie degli altri, aveva la coscienza di non riuscire a vivere fino in fondo le proprie gioie di diverso (Invettive e licenze, 1971). L’urlo, lo sgomento, la rabbia, salivano a tratti e venavano di ribellione anche la tenera memoria, rimasta l’unica àncora di salvezza per un animo devastato a morte. C’era, in quella poesia, l’ansia di una immortalità da ricercare a tutti i costi, perché sembrava inaccettabile rassegnarsi al cerchio stretto della vita, ai suoi confini angusti, al suo precipitoso declinare (“Fugace è la giovinezza / un soffio la maturità; / poi avanza tremando / la vecchiaia e dura, dura / un’eternità”). E balenava, al poeta, la salvezza possibile: Dio (“dolce parto di assoluzione”, “riscatto di ogni cosa atroce”). Ma Dio appariva e scompariva. E, di eterno, restava solo la morte, “sortilegio del nulla”, assoluzione e riscatto. Gliene veniva il desiderio; gliene rimaneva, nonostante tutto, una voglia segreta. E, intanto, il poeta si affidava all’artificio e alla finzione, al gioco degli specchi. Era questo il segreto scopo della sua poesia, esorcismo per eccellenza: annullare, componendo qualche segno di illusione, la consapevolezza dell’illusione stessa. Per Dario Bellezza, il problema più assillante a livello esistenziale, è stato la morte. Il suo pensiero era che, per ciascuno di noi, la vita sia la ricerca –come si diceva una volta- della buona morte. Insomma un fatto metafisico, come per la poesia. A leggere per esempio L’avversario (1994) si ha l’impressione di un “congedo” annunciato (e ce n’è proprio uno finale con tanto di titolo); come se l’autore si accingesse a deporre la penna per sempre e volesse prima testimoniare il messaggio estremo della sua esperienza di poesia. Probabilmente anche perché per lui ogni libro era una scadenza decisiva: nella necessità di fare i conti con se stesso e con la vita e nel timore (esorcizzato attraverso la poesia, appunto) di non essere più in grado di ripartire da capo, dopo il punto. Come accade esemplarmente nel Libro di poesia (1990), dove Bellezza ricapitola i suoi motivi e le sue ossessioni dentro quell’accensione verbale che ha sempre contraddistinto tutte le sue prove. Un’accensione verbale in cui la natura magmatica della scrittura trova una sua paradossale rastremazione, in un barocco un po’ lunare e contratto, cifra coltivata e perseguita in modo coerente fino alla fine. Ma per Dario Bellezza, la stessa poesia era una “condanna”, una “maledizione” e, in ogni caso, qualcosa che lui sentiva venirgli da lontano: come un’oasi, come un luogo dove ancora l’umano festeggia i suoi momenti più alti. Sia pure in una visione di impotenza; perché la poesia non serve, non cambia il mondo e, tutt’al più può cambiare alcune coscienze individuali. Ed è stato l’interprete privilegiato di questa idea di poesia, riconfermandola e sottolineandola con partecipazione totale ad ogni uscita di libro, dal primo all’ultimo. Ecco i prodromi di ciò che poi è stato: “Così aspetto di capire chi sono, / o meglio chi sono stato o diventato, / …ora malato / malato della malattia della morte”. E la netta evidenza: “Sono diventato un perfetto / casalingo, chiuso in casa, sognando / Dio o il misticismo”. Con la scelta o la conseguenza inevitabile: “La Santità: ecco il mio approdo / o la partenza definitiva. Nient’altro / voglio o aspiro”. Così si chiude l’ultima poesia, ritornando come si diceva alla prima; e lo stesso Bellezza ne ricapitola lucidamente il percorso in chiave religiosa (eretica, se si vuole, ma religiosa): “Non si muore subito. / Si muore poco a poco / in ogni giornata, / impercettibilmente / in attesa di Lei / ci si copre la testa / per entrare nella Chiesa / in espiazione di peccati / mai commessi o tentati”.

Paolo Ruffilli

Il Resto del Carlino

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