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L’AURORA BOREALE DI THEODOR DÄUBLER saggio di Paolo Ruffilli

L’AURORA BOREALE DI THEODOR DÄUBLER saggio di Paolo Ruffilli

Nel poema L’aurora boreale (Prima parte, Mediterraneo, a cura di Luigi Garofalo, collana Firmamenti, Marsilio Editori), la poesia di Theodor Däubler vive costantemente in una dimensione visionaria («Con esangui e tenui immagini della memoria avita / E altri doni dello spirito, accorti, moltiplicati in testa, / Possiamo rappresentarci la visione»). Pur partendo dai dati reali, a giocare la carta vincente è l’immaginazione, nella considerazione che per lui immaginare non è un occasionale e generico fantasticare, ma il dare corpo di immagine a ciò che si arriva ad intuire. Ed è pure, radicato a certi riferimenti concreti di un realismo perfino materialistico, ipotizzare un sistema complessivo secondo quanto la sensibilità profonda suggerisce all’intelligenza. Si costruisce così una cosmogonia personale, nella quale l’autore reimmagina in chiave lirica tutto ciò che vede, sente e tocca, facendo rifluire l’insieme dentro l’intuizione e la teoria di un “sistema” complesso e assoluto. Däubler è prima di tutto poeta, nel senso di quella dote di “pre-visione” di cui parlava Goethe, perché «niente è più difficile da vedere con i propri occhi di quello che si ha sotto il naso», e nella capacità di cogliere il senso profondo della realtà in connessione con i molti elementi che ne sottendono e determinano la vera “essenza”. Ma non è solo persona ipersensibile e talentuosa, meno che mai se ne può parlare come di un naïf, perché ha una vasta cultura sia pure costruita fuori dagli schemi tradizionali e stratificata negli anni a partire da una giovinezza solitaria e precoce. Dietro alla curiosità della sua intelligenza non ha frequentato soltanto il passato e la storia, ma ha acquisito una consapevolezza delle conoscenze del proprio tempo (nell’ambito delle scienze, del pensiero, della psicoanalisi, delle ricerche di antropologia, delle teorie giuridiche ed economiche) che riversa nella sua visione insieme alle ansie metafisiche e alle convinzioni religiose. Il suo è un sincretismo che fonde tra loro diverse concezioni e dottrine perfino apparentemente inconciliabili, nella convinzione che solo la “coalizione” di tutti gli elementi in campo possa spiegare qualcosa del grande mistero della vita dell’universo. Così, a partire dalla nuova prospettiva della scienza di una “materia intelligente” comune a tutto ciò che costituisce il cosmo, Däubler fa confluire nel suo sistema l’antico culto del sole della cultura egizia, l’elaborazione vedica indiana, i miti classici sia nella versione greca che nella ripresa romana e, culmine decisivo nella sua considerazione, il cristianesimo. Gli uomini sono fatti della stessa materia delle stelle, che col “fuoco” formano ed alimentano il cosmo («noi discendenti delle stelle, intuitivi e universali»). Nel caso particolare, al sole deve la propria vita la terra. Il sole infatti è il fuoco che «rende gravida» la terra. La luce è la manifestazione di quell’energia che, impregnando di sé, procrea la vita («O sole, idea immensa di luce che sei tu»). Quel fuoco e la sua emenazione di luce, nella convinzione di Däubler, sono nient’altro che la potenza positiva e creatrice che gli uomini chiamano “amore”. L’amore è il potenziale assoluto della vita e ogni sua attenuazione procura il decadimento della vita stessa. Per questo il destino e la scelta di salvezza per gli uomini è amare («Le nostre anime devono amare, sappiate tutti quanti, / E l’entusiasmo sempre più fecondo prospererà: / Sta scritto indelebile a lettere di fuoco sfolgoranti: / Solo l’amore per sempre in eterno durerà!»). In questo senso, si capisce perché Däubler consideri il Cristo e la sua predicazione il culmine della storia degli uomini («il sommo compimento della terra») e, in aggiunta, insista sullo “spirito” come sostanza e insieme metafora del fuoco-luce-amore.  La vera natura di tutto è dunque spirituale. È lo spirito che solleva verso l’alto gli uomini, inevitabilmente attratti verso il basso dalla loro natura terrestre. La terra è tutto ciò che concentra i bassi istinti, per altro fondamentali per conservare la vita nel precario della materia, mentre il sole è ciò che attraverso la luce, cioè lo spirito, la eleva verso una condizione assoluta di pura energia-amore che apre alla contingenza umana la prospettiva dell’eternità. Non a caso, a proposito dello spirito, Däubler cita spesso la Pentecoste, metaforicamente richiamata a ricordare la discesa dello spirito santo sugli uomini, portati dal peso del proprio corpo a deragliare dalla linea ascensionale e continuamente rimessi (per volontà propria o per grazia divina) sulla giusta direttrice di “salvezza”. Ogni manifestazione dell’universo (il sole, la terra, la luna, le stelle, gli uomini…) ha una sua coscienza di sé e della propria essenza, un “Io” profondo. Ogni uomo che si confaccia al suo Io individuale profondo riconquista la dimensione di luce e d’amore che gli viene dall’Io del sole. Il sole contiene nel suo io quell’io superiore, universale, che si è concentrato in lui nel formarsi stesso del cosmo. Cosmo che si è prodotto, metaforicamente parlando, come gestazione dentro un “uovo” universale («primordiale uovo copulator del mondo»), frutto della “covata” che l’energia-amore ha messo in moto appunto per amore. La terra è stata prodotta dal sole e, in questa dipendenza, aspira intimamente a «ritornare una stella splendente». Il sole le ha dato il suo fuoco e continua a donarle la sua luce. Il discorso sulla luce è centrale fino a determinarne il titolo, nell’intero poema di Däubler, per il quale la luce solare è «paterna» e quella terrestre «materna» nell’esperienza degli uomini. È un discorso che parte da lontano e, già prima che cominciasse a comporre i suoi versi, l’autore aveva letto le pagine che Goethe ha dedicato alla luce e alla teoria dei colori. La luce del nord ha caratteristiche sue proprie, perché nelle aree più vicine al Polo arriva obliqua sul terreno, con un angolo di caduta largo e con l’effetto di essere in sé meno intensa ma al contempo impregnando fortemente l’atmosfera, così che «tutto vive dentro una grande uniformità luminosa». L’aria tersa e cristallina del nord ha i connotati della trasparenza, nella quale domina spesso quella «tonalità vicina all’azzurro profondo» di cui parla Goethe e che ritorna spesso nei versi di Däubler. L’aurora boreale è il segno permanente nella ricorrenza della primigenia coniugazione tra il sole e la terra, reazione elettrochimica e comunque metafora visibile di una luce giallo-sole originaria che mescolandosi al blu-notte del buio produce le scie di verde-vita che la caratterizzano. E, riemergendo dal blu della notte alla luce del giorno, ecco profilarsi quell’azzurro profondo che Goethe definiva «un nulla eccitante». È il nulla eccitante che, nella sua natura cristallina fredda, spinge Däubler a cercare nella luce del sud e nella sua linea di incidenza sempre più perpendicolare verso l’equatore, sia pure nella dilatazione e nell’appannamento della trasparenza, il calore che ravviva potenziandola la vita («Fecondata e tenuta a bada dal sud vivificante»). L’importanza della luce si lega sempre a quella fonte di vita che risplende nel giorno e si attenua di notte («sonno dei viventi»), che è attrazione verso l’io del sole di giorno e cedimento alla forza di gravità della terra di notte. Il buio, come ogni cono d’ombra, si delinea così nel segno negativo di perdita di slancio per le creature e per la terra stessa. Da qui il valore sempre attribuito nella storia degli uomini alla luna, per lo splendore acceso nelle tenebre e per la sua funzione benefica oltre che scaramantica di specchio della luce solare altrimenti cancellata dalla notte. Luce viva in presenza, nella luna, e baluginante in lontananza, nelle stelle. Tuttavia anche la notte avvolta nel suo manto di tenebre ha le sue buone conseguenze nella vita degli uomini, del resto niente accade per caso nell’ordine secondo cui si sono disposte le decisioni necessarie e sufficienti della natura. Occorreva dare un’alternanza di pieno ma anche di vuoto apparente ai ritmi della quotidianità: «Nelle case coppie godono dei loro corpi dopo il giorno / E spesso ci tiene desti il suono della musica alla fine.  // Rende possibile la notte quel che il giorno ha escogitato! / Perché restituisce, ciò che la luce ha inghiottito, l’unità / E, con il sonno racchiudendo il mondo in un tranquillo stato, / Vince a questo modo la sua scommessa nell’oscurità». E la notte apre porte impensate di riassesto e di illuminazione al compimento non facile di ogni vita, facendo vedere in modo chiaro al risveglio quel che di giorno appariva confuso: «È un fatto che il sonno tenga ogni anima in equilibrio aperto, / Perché sempre eguaglianza d’ebbrezza e quiete ci concede! / Quel che di giorno altri ci hanno sradicato in varia dose / Viene restituito all’io per mezzo appunto del sopore, / Sognanti barcolliamo, tendendo le mani verso altre cose, / Dissimula la notte quel che di giorno ha commosso il cuore. / Allora davvero si riposa la ragione: lei ama il suo tacere! / Le cose agiscono da sé: non c’è spirito alcuno che interviene». Una delle porte, che si aprono nel buio della notte a rivelare evidenze cancellate o imprecise perché per difetto di messa a fuoco sfocate o sovrimpresse, è il sogno, di cui Däubler parla in più occasioni, dimostrando di conoscere direttamente o indirettamente Freud e la sua interpretazione dei sogni: «Ai sogni è concesso ascendere nelle perdute fondità più nere, / E quel che è obliato può d’improvviso risalir dalle catene. // L’anima si precipita per le nascoste porte del futuro! / Il nostro grande labirinto da sempre il sogno è stato: / Noi ci lasciamo guidare dal senso del riposo oscuro, / Perché ci scioglie quel che dentro si trova ingarbugliato!». Nell’ordine del cosmo, l’uomo non ha una posizione marginale e passiva, tutt’altro. Più di ogni altra creatura dei tre regni di natura per conquista di coscienza, nel far parte dell’universo contribuisce alla sua conservazione e al suo ulteriore sviluppo. La coscienza deve però spingere l’uomo a superare la parte più terrestre della sua natura, quella legata al desiderio che è spesso negativo e mira all’egoismo e alla soddisfazione delle voglie, per riconquistare ancora più potente il flusso spirituale che lo attraversa, cioè l’amore che non ha secondi fini e che, pur fecendo esperienza di sé attraverso la carne (piacere e passioni sono necessaria esperienza di vita), deve superare la carne stessa perché, al contrario, è la sua parte spirituale che lo trascina verso l’alto per farlo tornare, da persona consapevole, alla condizione di energia pura da cui discende. Däubler vede con chiarezza i difetti e i limiti dell’uomo, ne conosce bene la forte dipendenza dalle proprie voglie, l’istinto a imporsi sugli altri, il facile ricorso alla violenza e la tendenza al malaffare fino ai delitti più efferati. Ciò nonostante, crede nella bontà profonda dell’uomo, suo germe divino, e nella possibilità di farla riemergere anche dal traviamento peggiore. Da questo punto di vista, ha un’apertura decisamente moderna sulla possibilità di riscatto e, in una personale riconsiderazione dei delitti e delle pene nel corso del poema,  parla della punizione del reo senza volontà di vendetta, della sua espiazione e del reinserimento nell’ordine sociale nella funzione propriamente giuridica della sanzione, dimostrando di anticipare i tempi nel concetto della tutela della persona. Del resto il poema è pieno di autentiche intuizioni ante litteram che risalgono agli inizi del Novecento, come quella della globalizzazione che agli occhi di Däubler andava già imponendosi nel mondo («I popoli si sono già tra loro piuttosto uniformati, / Conformismo e copia negli abiti già evidenza hanno, / Non si basta mai a se stessi dagli altri non differenziati / E la libertà d’azione d’oggi è un magistrale inganno») o come quella dell’incremento esponenziale della popolazione mondiale e della necessità di produrre cibo per sfamare la gente («Prima di tutto dobbiamo procurarci cibo per milioni! / Presto il desiderio d’essere nutriti bene ci sarà tolto. / Chi paga le tasse consentirà ad altre restrizioni, / Per star tranquilli ci lasciamo sottrarre molto!»), nel bisogno di leggi per regolamentarne con giustizia la distribuzione, superando i privilegi delle classi dominanti e ricche. Per non parlare poi della prefigurazione, che oggi chiamiamo ecologia, della necessità di conservare la natura senza distruggerne o modificarne i tratti più selvaggi, tutelando gli animali, a partire da quelli che non si sono lasciati addomesticare, e salvaguardando alberi («parabola di vita») e boschi («O vergine foresta, sensitiva icona di ciò che è più vitale»). Tradizionale è invece il ruolo che, nel suo sistema, Däubler assegna ai due sessi, nell’ottica contrapposta dell’intelligenza per l’uomo («la ragione è maschio») e della fisicità per la donna, che tende a ricomporre in sé l’equilibrio e la stabilità dallo sbilanciamento maschile («Soave in sé la donna il potere dell’anima sa conservare, / La ragione non può acclararle il suo ineffabile favore / E di rado una creazione da lei arriva a germogliare, / Perché ogni cosa ricerca in lei stabilità interiore»). L’uomo si realizza per la gran parte nel lavoro e qualsiasi tipo di lavoro ha la sua necessità e la sua nobiltà: è un’occasione di crescita e non una condanna. La donna spende le sue inesauribili risorse soprattutto nell’ambito della famiglia, allevando i figli e offrendo amore e solidarietà al suo compagno di vita. La compensazione reciproca realizza e cementa l’unità: «Cuore nel cuore, occhi negli occhi, così sospesi / Restano a guardarsi l’un l’altra innamorati: / Dentro lo scintillio dell’anima, esultano compresi, / Da uomo e donna vivono i loro opposti stati!». Trattare in versi gli argomenti teorici è sempre difficile e Däubler, per tradurre liricamente anche i suoi passaggi più ideologici, fa ricorso a tutti gli espedienti che la poesia offre. Nella convinzione che il ritmo sia lo strumento migliore per affrontare la sfida («Il ritmo è un celeste volo e si assicura i sogni cui s’afferra. / Conduce l’argentea scala a diuturni pensieri celestiali, / Le rime son fioriture d’alberi spuntati dalla terra, / Al profumo loro vacilliamo come esseri privati delle ali»), l’autore si affida sempre alla soluzione musicale e, nella partitura di rime, assonanze e allitterazioni, è pronto ad usare l’intero repertorio storico delle parole del presente e del passato, ma anche a forzarle modificandole e inventandone di nuove. Scelta che inevitabilmente rende difficile, se non impossibile in certi casi, la traduzione e che spinge a sua volta il traduttore a scegliere la musica come occasione portante, arrivando a forzare il puro senso letterale senza tuttavia tradirlo nel ricorso a minimi tagli o aggiunte secondo necessità di ritmo e di rima. La poesia di Däubler è in linea con le esperienze dell’espressionismo tedesco, che vedeva la nuova generazione rifiutare la società retrograda, bigotta ed eccessivamente conservatrice dei primi del Novecento. Si commisura per risultati in particolare con la produzione di Else Lasker-Schüler che condivide nei suoi versi, nella concentrazione interiore, lo stesso profondo carattere spirituale in un ampio spettro di riferimenti biblici e orientali e la stessa libertà nella ricerca formale e nel ricorso ai neologismi. E trova riscontri pure nella poesia potente e visionaria di Georg Heym che, nonostante la sua breve vita, è probabilmente il massimo esponente della nuova vena lirica vitalistica. Come i suoi due connazionali, anche Däubler deve qualcosa alla filosofia della rivalutazione della sfera affettiva di Max Scheler e alla liberazione dell’uomo dai «ceppi materialistici della vita» interpretata da  Franz Werfel, ma ha in più rispetto a loro, per la sua pratica delle lingue e dei luoghi, la conoscenza dettagliata di ciò che accade in poesia nell’Europa del tempo, in Francia e perfino in Italia, dove conosce e frequenta non solo i futuristi ma anche un espressionista come Arturo Onofri. Däubler è un navigato esperto di metri e usa a suo piacimento tutti i possibili versi, classici e no, costruendone di nuovi, nella misura lunga come nella breve. Tutto, purché suoni al suo orecchio musicale. Del resto, in corso d’opera, decanta continuamente la fondamentale importanza della musica nella vicenda degli uomini, dalle forme più semplici e antiche, legate magari alla mitica siringa di Pan, «portatore del ritmo cosmico sulla terra», a quelle più complesse e sofisticate di cui è stato per tutta la vita affascinato ascoltatore. E non è un caso che nel poema assuma parte estesa e occasione di continuo elogio il lungo canto di Orfeo, il cantore delle straordinarie virtù della terra, metafora vivente dell’unità uomo-donna nell’amore, icona e simbolo dell’arte creatrice di tanta bellezza da incantare gli esseri viventi e perfino i demoni e le anime dei morti. L’autore ha una grande competenza verbale, nel senso anche che ha un’autentica preparazione linguistica, che gli consente in più occasioni di affrontare in versi le modalità e le ragioni dell’uso del linguaggio da parte degli uomini. Del resto, con altrettanta bravura, Däubler fa nel suo poema vera metaletteratura, prendendo ad argomento i processi e le convenzioni della poesia. In particolare, in un serrato dialogo uomo-donna ai margini di un ballo di carnevale, si chiede attraverso i suoi due personaggi come faccia la poesia a riportarci alla verità profonda delle cose, dei sentimenti, delle emozioni, attraverso gli stimoli  e gli impulsi segreti più diversi, legati alle più diverse circostanze. Alla domanda di lei: «Ma cos’è mai, mi chiedo, la poesia? Avverto che in molte cose è trama, Ma non ne colgo mai l’essenza», la risposta però non è nel caso una definizione tecnica, ma una serie di circostanze in cui si fa esperienza della poesia dal vivo: «Sinceri amici, immagini sognate, / Intuizione di ogni forma originale, / Piane lunari nell’errare immaginate, / Un sostegno che dal profondo sale! / Vive canzoni dal respiro pieno, / Il principio della notte nell’animo colpito, / I lillà, posati qui sul vostro seno, / Che m’hanno rallegrato e intimorito, / Tutte le cose disposte in armonia, / E il genio, non solo lo splendore,  / La più profonda vorticosa melodia…»  In questa risposta senza risposta, si coglie la natura magari occasionale ma di bellezza e di straordinario valore di molti frammentari passaggi di questo ciclopico poema: quadri di paesaggio, scorci di natura, incontri di persone, scene d’amore, abbagli di sogno, ritratti di figure, albe e tramonti, meriggi e notturni, mari e cieli, rimemorazioni storiche, ma anche chiarori di ragione, rivelazioni di pensiero, scioglimento di nodi, combinazioni di idee. Tutte situazioni di incanto che, alternando delicatezza e potenza, conquistano il lettore, al di là dell’intera densa trattazione dottrinale e di certe sue inevitabili oscurità. (La dottrina e l’incanto, dal volume L’aurora boreale – Mediterraneo, collana Firmamenti, Marsilio Editori)

Paolo Ruffilli

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