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POESIA E FILOLOGIA IN ‘FILO SPINATO’ DI ALESSANDRO FO di Antonio Pane

POESIA E FILOLOGIA IN ‘FILO SPINATO’ DI ALESSANDRO FO

Poeta ormai di lungo corso, Alessandro Fo approda alla sua terza ‘bianca’, Filo spinato (Einaudi) con un cartello che mette sulla difensiva. Ma la poesia eponima (che conclude il libro ed è parzialmente offerta in copertina) parla di una storia le cui spine, invece che sofferenza o morte, portano vita, salvando letteralmente la pelle al nonno-soldato che, maledicendo la sorte per esser rimasto «impigliato in un reticolato», sfugge però alla bomba abbattutasi nel frattempo sulla trincea che agognava raggiungere. In questo senso, lungo le sezioni Ingannare il tempo, Muto carcere e Dei sepolcri, again, il titolo dà il tono a una raccolta insediata sì nel dolore e nel lutto, ma insieme percorsa da un filo di speranza, da un raggio di luce. Da sempre la poesia di Fo privilegia il peculiare prodigio delle cose, illustrato dal memorabile «sedici giugno del novanta (unico giorno a chiamarsi così)» di una poesia di Corpuscolo (la sua prima ‘bianca’), e si consacra alla loro salvaguardia: il fulgore dei volti, dei gesti e delle parole che per un attimo ci hanno illuminato e che si vuol restituire, leggiamo in quarta di copertina, «con la speranza che qualcosa resti». Sui ‘piccoli miracoli’ di cui è testimone o viene a conoscenza Alessandro Fo esercita lo stesso scrupolo del filologo chiamato a stabilire un testo, a difenderne l’integrità. È il suo tratto più singolare, che lo differenzia da una più comune propensione a fare del ‘fatto’ un mero punto di partenza (Louise Glück, in Castile, giunge ad affermare: «I have forgotten / only the facs, not the interference»). Per lui il fatto è invece il punto d’arrivo, il valore primario, da onorare con un condegno lavoro di ‘curatela’ (reso del resto esplicito dalla conclusiva prosa Un appunto, con puntuali notizie sulle ‘fonti’ di vari testi, ivi compreso l’omaggio a «una frase di Gianluigi che mi parve di rara poesia» e l’impagabile «‘filologicamente’ parlando» che discute caparbio l’esattezza di un ricordo). A comprovare questa fedeltà stanno qui le poesie ‘ecfrastiche’, che provvedono cioè a descrivere e commentare una foto, riguardi le suore carmelitane del monastero di Santo Stefano a Ravenna (Arcangeli del Corelli), la bambina palestinese che mette in salvo i libri bombardati (Finestra) o il volo suicida di una donna a New York (Sala d’aspetto). Se si ha, come io ho avuto, la curiosità di controllare, si resterà ammirati dai versi che ne accarezzano i dettagli (il «vestitino verde», la scritta «Coffee shop mountain»), quasi a toglierne la polvere o a ricomporne maternamente le spoglie. Ma anche quando non descrivono delle vere e proprie istantanee (o non ne descrivono la descrizione, come in Un vecchio scatto della Nobil Contrada del Bruco), le poesie hanno anima di esserlo, di raccontare, leggiamo ancora in quarta di copertina, «piccoli episodi come ripresi da vecchie foto» (o da una distanza, con il cannocchiale adoperato nella raccolta Bucoliche (al telescopio)). La prima delle tre ‘stanze’ di questa ‘esposizione’ di sapore gozzaniano (avvertibile nella rima a distanza «intonsi»/«Poggibonsi» di Come salvarsi agevolmente la vita in caso di grave crisi) è senz’altro la più luminosa. Vi spicca il trittico sulla residenza «Il Balcone», quasi interamente intessuto di frasi ‘rubate’ durante le visite a un’anziana ospite; frasi che da sole formano un delizioso e toccante profilo di donna, un monumento alla ‘forte fragilità’ (integrato, poco più avanti, da Le pagelle del 1934, dove un remoto «6 in matematica» chiede ancora vendetta, ed è argutamente affidato alla domanda che la effettua dichiarando una poetica: «Chi potrà consegnarlo ora alla Storia?»). Altri frutti felici di questa assidua ‘arte del furto’ sono le parole che danno un lume testamentario alla poesia proemiale, Doni («Io che, da viva, non servivo a niente, / servirò a qualche cosa almeno morta»), o quelle di Kay Kent, sosia di Marylin che dorme vestita solo di «Due gocce di Chanel n. 5» (sapientemente riverberate, nella successiva Lettera da Firenze, dalla stupenda chiusa «La sera, andando a letto, / solo due gocce di versi. E dormire»), o le probabili ‘rapine’ epistolari di Facendo adesso un altro lavoro (con quel paradisiaco «declivio» pieno di fiori nominati con passione da naturalista), fino al sordo rintocco del «sono grave» che sigilla Leggendo la poesia delle patate ‘ritrovando’ il ricordo più doloroso (lo stesso che in Corpuscolo bagnava di lacrime la «Madre scannerizzata, madre solarizzata» di Asta e bandiera). Altrove le parole, non ‘rubate’, sono invece il tentativo, spesso splendido, di racchiudere particolari, più o meno fuggevoli, epifanie; vogliono ricambiare il dono di un attimo. Penso all’anonima ragazza di Quel che inizia del giorno, colta di corsa, in corsa, per celebrarne la silenziosa eclissi: «a destare stupore / è come, anche all’impatto delle suole, / sia già lontana, senza alcun rumore». Penso alla figura femminile di Minimi incontri, composta in una progressione (dalla «non conosciuta ancora, molto bella», alla «rifiorita», all’«abito da sposa», ai capelli «freschi di chemio, e dunque ormai caduti») che devotamente disegna la curva di un destino; o alla ‘donna che legge in treno’, paragonata a «Valentina Lisitsa in seta azzurra / che attraversa uno studio di Chopin» e infine folgorata dal virtuosistico «le virò il viso riverso» (Angelo fra le righe). Il colore dominante della seconda ‘stanza’ è il grigio sporco delle prigioni, portato di «un’esperienza di volontariato culturale in istituti di pena» (Un appunto) da cui il nostro ‘ladro d’anime’ ha saputo trarre un prezioso bottino. Non era facile. La crudezza delle storie intercettate poteva qui ‘minare’ il sistema, scuotere il delicato equilibrio di tessiture condotte sul filo del garbo e dell’eleganza. La galleria che ne deriva ha invece una sua bellezza, una bellezza ‘caravaggesca’ che lascia il segno, e interpella le nostre coscienze.  Difficile dimenticare, ad esempio, la morte di Mario Trudu («Non poteva parlare, era intubato. / È stato l’apparecchio a registrare / la commozione. Una traccia di lacrime»), e quel cinico «e ce lo siamo levato di torno» che fulmina un sentire da cui nessuno può dirsi immune. Difficile dimenticare l’‘isolato’ che impara a memoria «un vecchio numero di “Famiglia cristiana”», e quando riesce a ottenere dei libri, pur «putrefatti, sbrindellati», piange di felicità. O il «vuoto movimento, / complemento di moto senza luogo», della cosiddetta ora d’aria. O la regolare richiesta «di essere condotti nottetempo / in data odierna sul campo di calcio, / per contemplare le stelle cadenti, / ed esprimere ciascuno un desiderio / che saprà lui» (per non dire di quella, non giurisdizionale, di un peluche: «poterlo avere in cella / solo ventiquattr’ore»). Potrei proseguire, ma insomma, prestando il suo microfono ai ‘fatti di galera’, facendoli ‘parlare’, con versi che sembrano andare al passo lento dei condannati e con rime trovate per via, senza abbellimenti o fioriture, senza ricerca di ‘effetti’, senza ‘poeticherie’, senza gorgheggi, l’autore attinge un suo sobrio, «altissimo canto». La terza stanza, inutile dirlo, è foderata di nero velluto, declina in varie guise il gran tema della morte, alternando momenti di relativa leggerezza e soste di più austero raccoglimento che nelle otto poesie del Libro dei Numeri toccano la tragica attualità della strage pandemica, per culminare nella data del «31 XII 20» in cui si iscrive la metapoesia («breve scritto da inserire / all’ultimo momento fra le pagine») che vuol esserne il provvisorio bilancio, anche personale: «Levando gli occhi al cielo, intorno ho i libri, / da lasciare a una qualche biblioteca» (ma «’l giorno, ’l mese e l’anno» contrassegnano, come un marchio di fabbrica, ogni prodotto di questo poeta che tiene a dichiarare i propri procedimenti, ha una vocazione per così dire auto esegetica). Fra i lampi che ne contrastano in qualche modo la penombra, piace qui ricordare la semisorridente evocazione di una pasticceria ‘che non c’è più’, ma continua a far rimpiangere «l’umile gusto di una sfogliatella» (Non vanamente), le pertinaci «pin-up» di un vecchio elettrauto (Dei sepolcri, again), il controverso acquisto di lacunosi Frammenti funerari eletti «Gronchi rosa dei “Pindàri”» (Il non più tanto giovane erudito), e soprattutto la «bellissima, / gentile, sensuale, con le dita / inchiostrate dai timbri», ‘musa’ del bellissimo distico che riassume, credo, il credo di una vita: «Ciò che ho visto e sentito ho messo in versi / che un giorno forse qualcuno avrà incontrato» (Laura alle Poste di Via A. M. R.). All’estremo opposto, nel buio senza spiragli, si colloca Esseri umani, lunga e vibrata invettiva biblica, catalogo di nequizie che rende ancor più acuto l’umor negro che ispirava, nella prima sezione, Agosto ti mortifica o fortifica, portando una nota di insolita «rancura» (per usare una parola cara al Ripellino più volte convocato nel libro) nella poesia di Alessandro Fo. Ma questo è forse un segno dei tempi oscuri che ci spingono, nostro malgrado, a ‘prendere posizione’, a farci carico, per maledirlo, di tutto l’obbrobrio che ci infesta.

Antonio Pane

Semicerchio LXIV, 01/2021

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