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PER LA POESIA DI MINORE di Giulio Ferroni

PER LA POESIA DI MINORE

Nel titolo scelto per questa autoantologia di Renato Minore Ogni cosa è in prestito, La Nave di Teseo (che, con impercettibile variazione, è quello di un testo apparso nella raccolta Caro pensiero e qui riportato, pp.213-217) Renato Minore riconduce direttamente la propria più che cinquantennale ricerca poetica all’impegno, alla necessità, alla continuità di uno sguardo alle cose e al tempo, ad un accadere che non può dipendere dal sapere del soggetto. Stare a vedere quel che accade: porsi di fronte al vario configurarsi di circostanze, eventi, aspetti del mondo, a quell’imprevedibile mutare che la generazione dei nati intorno alla guerra (quella di Renato e la mia) si è trovata ad attraversare, scontando la sproporzione tra programmi, previsioni, ipotesi di vita e i diversi esiti che sono loro toccati, l’impossibilità di trovare una congruenza tra la coscienza della realtà e la realtà stessa, tra tensioni, desideri, illusioni individuali e collettive e il darsi dei rapporti, degli incontri, degli eventi.

Fin dalle prime prove la scrittura di Renato tendeva a risolvere questa attesa dell’accadere in disposizione al racconto: incontro con il darsi di circostanze e situazioni, con effetti, configurazioni e movimenti dell’esistere, da raccontare nel loro dipanarsi e nel loro perdersi. Di fronte al vario apparire di aspetti e combinazioni della vita, il soggetto in posizione di attesa sembrava voler comporre un racconto, che poteva svolgersi solo per frammenti descrittivi, esiti e risultanze di quello «stare a vedere», che non poteva ricomporsi in un quadro sicuro e omogeneo dell’intreccio delle cose, di quella che oggi chiamiamo troppo disinvoltamente complessità (illudendoci così di designarne il senso). Come se ogni volta fosse spinto a verificare non solo la sconfessione di quanto prima si credeva di sapere, ma anche il mancato acquisto di un nuovo sapere.

Esemplare a tal proposito il titolo della raccolta del 1985, Non ne so più di prima, che qui viene giustamente a collocarsi come titolo della prima sezione, titolo davvero rivelatore. È una breve battuta, di quelle che a tutti può essere capitato di proferire anche in banalissime situazioni, ma che qui, subito ad apertura di questo libro, fissa il fatto che lo stesso confronto con un nuovo accadere non può portare ad un vero accrescimento di coscienza e conoscenza, ma solo a nuovi stadi di incertezza, di deprivazione ed evanescenza della sostanza del proprio “sapere”; e ci riconduce ad una necessaria correzione del sapere e dello sguardo, anche per ciò che tocca i rapporti personali, le stesse relazioni amorose. Così nella poesia iniziale, La delirante e sognante immaginativa, questo “non sapere più di prima” si riferisce ad un amore sospeso continuamente tra affermazione e negazione, entro un vissuto comune che si è svolto come senza conoscersi: dissociazione e malinteso, nell’impossibilità di identificare davvero la presenza dell’altra, quasi sostituita dai segni e delle proiezioni immaginarie del suo essere, in un gioco che si presenta come una artificiale maschera di sé («Mi piace dirti parole a cui non credo», p.24), mentre sembra che per lei il fatto che «nulla esiste» si ponga come «garanzia del mondo» (p.28). A tratti le cose e i rapporti vengono come a dissolversi in una sorta di inesistenza, in un racconto che ha perduto ogni conseguenza tra inizio e fine; ci sono vicende fissate nell’immaginario, storie o favole che hanno cambiato i connotati; così in Stella del mattino: «Balaiardo rincorre / la fata Oliva, / esce Berlicche, / vola come il vento. /  Mentre si dilegua / il suo vice, / Azarel dice: /  “Percorro mille /  miglia all’ora.” // Ma Oliva si fa ombra, / si fa neve, dov’è mai? / L’ardore monta / e poi rimonta. / Grida Balaiardo, / si sente irriso / da quel viso / che sfuma in creta: / che sia paradigma / o archetipo / dell’antico sorriso?» (p.39)

Ma, nonostante e attraverso il suo vario muoversi in direzioni impreviste, sempre diverse da quelle scontate e canoniche, la poesia di Minore trova anche limpidi e riservati lampi di adesione alla sfuggente realtà, alle presenze umane, pur nella consapevolezza della precarietà e dell’evanescenza dell’umano. Più volte si affaccia in essa il confronto con la memoria, con quella personale, fino ai ricordi dell’infanzia, e con quella storica, artistica e letteraria. Il dialogo con i classici e con i poeti amati è vivo in tutto questo percorso poetico: e agisce anche a livello di tracce e riferimenti linguistici, discreti richiami intertestuali. In maniera più ampia e centrale esso si dispone nella raccolta del 1993 Le bugie dei poeti, il cui stesso titolo riconduce l’esperienza della poesia al suo rapporto dislocato e contraddittorio con la realtà, secondo il celebre detto di Giovanni di Salisbury, «mendacia poetarum serviunt veritati» (che torna anche nella definizione dantesca dell’allegoria, «veritade ascosa sotto bella menzogna»). Particolarmente intenso è qui il dialogo con Leopardi, a cui del resto Minore ha dedicato una appassionata biografia), con momenti della sua vita, con alcuni suoi ritratti (Volti di Giacomo) e con L’infinito. Rileggendo l’infinito, grazie a una citazione in epigrafe, connette la celebre poesia con il pensiero di Leonardo da Vinci; e si pone come un’interrogazione sul collassare del tempo, in un implicito confronto con il rilievo tutto diversamente evanescente che la categoria dell’infinito (come quella del tempo) ha assunto nella scienza, nella cultura e nella comunicazione contemporanea, con la totale sparizione, tra l’altro, della «profondissima quiete» leopardiana. La rilettura de L’infinito conduce così anche a dar voce alla distanza tra l’assolutezza di quel pensiero capace di riflettere dentro di sé l’incommensurabilità del tempo e dello spazio («io nel pensier mi fingo») e l’evanescente misura del “sapere” contemporaneo, nel suo scorrere sul ritmo dei media («Senza sapere ciò che sappiamo / ancora fulmina / la pallida saggezza / del calendario audiovisivo», p.105).

Sapere e non sapere, capire e non capire: la dislocazione insidia ogni atto di visione e di pensiero: e ciò comporta una continua necessità di correggere e correggersi, di ricusare precedenti punti di vista. Ecco allora, ancora leopardianamente, una Palinodia («Guardavo non capivo./…/ rigida canna d’organo,/ non percossa non suonavo», p.80), e poi, più tardi (dalla raccolta O caro pensiero), una serie di tre Palinodie, che dichiarano di confrontarsi con Leopardi, con Amos Oz, con Javier Marias. Nel dialogo con gli scrittori non poteva mancare, ne Le bugie dei poeti, Ennio Flaiano, con il ricordo, anch’esso dislocato, di un incontro forse su di una spiaggia: ricordo che è un non ricordo, incontro che è stato un non incontro, con quello che per il più giovane pescarese Minore poteva essere un grande modello culturale e che ora dalla morte guarda «il vuoto di tutta questa vita» che per lui «non è stata». Ne consegue il sospetto forse illusorio che ci sia una sorta di «destino incrociato» tra i due concittadini di diverse generazioni, quasi la sensazione che siano legati da un messaggio e da un atto segreto, invisibile, non verificabile, sotto il segno  di una «saggezza» comunque incerta e parziale, «stanca» da una parte, autoironicamente «stitica» dall’altra: «L’uno consegna all’altro l’invisibile messaggio di cui andiamo fieri, / per un atto che nessuno ha mai visto e nessuno / potrà mai vedere, sigillato nel luogo dove s’incontrano / la tua stanca saggezza con la mia stitica di oggi». (p.91)

Procedono su questa strada anche i testi provenienti da Nella notte impenetrabile, 2002, titolo che dà evidenza all’intrico sempre più confuso della conoscenza e del destino stesso del mondo, che cominciava a percepirsi già alla fine del millennio, con le varie “mutazioni” storiche, politiche, scientifiche, tecnologiche, antropologiche. E qui molti dei testi si inscrivono sotto citazioni da filosofi e scienziati del Novecento. Ad esempio Privilegi porta in epigrafe una citazione dal fisico Giorgio Parisi, sull’oscurità che si avvolge intorno alle nozioni di prima e di dopo; e interroga i «privilegi» del tempo, «corrosioni e splendori» del prima e del dopo, impossibilità di identificare il «dove» di chi è vissuto «prima del big bang», privo perfino dell’«apparenza di una larva» (p.133). Molte sono qui le voci di disappropriazione, che toccano le sfasature dell’esperienza e della conoscenza: sono il segno di Pessoa è Ogni cosa è in prestito anche il dolore, con l’amara constatazione che ogni affetto che si pretende singolare e assoluto, ogni dato di vita a cui si affida il senso di se stessi, è in realtà come preso in prestito, in un’autenticità fittizia e vuota. E d’altra parte non sono in gioco soltanto gli effetti del sapere, della coscienza e della conoscenza, ma anche le presenze e il movimento degli oggetti, che vengono illuminati con perfetta misura descrittiva, quasi in descrizioni/racconto, come nella figurazione mobile de La piuma e la biglia, messa sotto il segno di un celebre aforisma di Wittgenstein. Piccolo trattato sull’angelo, articolato in otto sequenze, proietta questi dati verso prospettive cosmiche e siderali, in un susseguirsi di segni e immagini di stacco, di passaggio tra posizioni diverse, che ritmano il dislocarsi dell’esperienza; così in questo lampo sull’improvvisa chiusura di ombrelloni sulla spiaggia: «Ricordala la fretta / con cui d’estate si chiudono gli ombrelloni / al primo battere della pioggia». (p.149)

E si veda ancora questo avvio della bellissima sezione IV: «Vertiginosa abbondanza / d’ogni contrario, / numinosa dispersione d’ogni somiglianza: / che nulla e nulla e nulla / possa meglio combinarsi».

Questo pensiero della dislocazione, della dispersione della somiglianza, del contraddirsi della cose, viene a risolversi in una più definita nitidezza, quasi in problematico alleggerimento, in dizione rarefatta e civilissima, in assorta urbanità, nella raccolta del 2019, O caro pensiero, i cui testi in gran parte vengono a costituire la successiva sezione di questa autoantologia. Qui, specialmente nella zona iniziale, si affacciano più espliciti dati memoriali, ricordi dell’infanzia e della vita familiare, presenze paterne e materne, vecchie consuetudini, occasioni festive d’altri tempi (tra cui si affaccia l’amato presepe natalizio), lacerti di eventi che allora colpirono l’immaginazione (come La morte di Ascari, campione automobilistico morto nel 1955 durante una prova). Poi in Vento e filo d’amore si toccano le cose condivise con la compagna di vita e la loro inevitabile evanescenza («Le cose che io so le cose che tu sai/ Le cose che facciamo finta di sapere/ Le cose che fanno il mondo grasso e tondo/ Le cose che hanno angoscia e fondo/ Le cose appena sussurrate/ Intuite eppure dimenticate/ Svanite appena la luce s’avvicina», p.185), in un groviglio di contraddizioni, di sognati approdi verso un compimento negato da una «abissale incontinenza/ a mescolare le cose dette e le cose pensate» (p.188).

Nell’eponimo O caro pensiero si succedono varie brevi quartine intervallate a singoli versi tracciati in corsivo (quella di intervallare versi in corsivo, come voci disposte su di un altro piano, commenti e/o controcanti alla voce poetica, è un dato che si affaccia in vari testi di Minore): vi si segue il sovrapporsi, confondersi e separarsi tra l’io e il pensiero, la sostanza mentale che sembra spesso andare “da un’altra parte”, svolgersi verso territori estranei all’esperienza, inseguire e inseguirsi, sfumare mentre si fa tardi e tutto sfugge: «Non c’è alcun nesso / tra le scaglie di quel pensiero / che s’insegue e io che arranco / nell’inseguire … Ora è davvero tardi / per sapere se il pensiero / che mi guida è proprio / quel pensiero che speravo».  (p.194)

Esemplare è il testo da cui è stato ricavato il titolo del presente libro, Stare a vedere ciò che accade, in cui per gran tratto il succedersi delle quartine è intervallato dai versi in corsivo di cui già di è detto. Qui l’osservazione dell’evanescenza del conoscere, della sfuggente individuazione delle cose e del loro movimento, si svolge come descrizione rallentata e progressiva dello svolgersi delle immagini di uno schermo, del risolversi dei riflessi virtuali della realtà nel gioco dei pixel, dei colori e delle mutevoli forme geometriche che essi assumono, combinano, compongono, scompongono, dissolvono, in una sospensione enigmatica del tempo. Si sta a vedere l’evolversi dello sciame in cui si risolve la consistenza delle «città vitali», in cui si regola il caotico ordine del mondo, nell’imperante sogno digitale, nel cieco procedere della civiltà e della storia: «Non sappiamo dove ci porta / quel movimento lieve che ci azzera, / ma sappiamo che in quel movimento / c’è la cieca sapienza dello sciame… Stare a vedere quel che accade / Stare a sentire quel che fugge / Stare a sgocciolare per l’eternità / Stare accantucciati nella punta dello spillo». (p.216)

Lo sfuggire e negarsi del sapere non si pone come una rinuncia alla conoscenza, ma come una verifica sulle condizioni che essa ha assunto nel presente, prima nel trionfo della comunicazione e dell’apparenza, poi nel sostanziarsi della stessa comunicazione e apparenza nell’impero della digitalità. Il non poter sapere si fissa ancora in Io non so, che sembra riprendere il titolo della traduzione di un testo di un autore giapponese, Kikuo Takano, di cui Minore ha curato la raccolta Il senso del cielo, e svolgerlo in un’interrogazione del nesso tra fine e inizio.

Omaggio alla forma metrica e descrittiva dei tanka giapponesi è l’ultima sezione di questa autoantologia (testi che comunque erano in gran parte presenti già alla fine della raccolta del 2019), dove si affacciano anche suggestivi riferimenti pittorici. Non è d’altra parte casuale l’inserzione, in posizione finale, in questo dantesco e pandemico 2021, dell’inedito System Error Leggendo Dante nei giorni del Coronavirus.

Ma se lo stesso Coronavirus può essere considerato un segno di dislocazione della vita del pianeta, della cultura globale e dell’illusione digitale in cui siamo tutti presi, come un inopinato avvertimento sulla distruttività dei saperi che hanno creduto di condurre l’espansione illimitata dell’antropocene, non può certo essere fuori luogo un richiamo finale all’amato Leopardi, a cui è dedicata la prima delle Palinodie di cui sopra ho già detto. È un testo che forse ci mette in guardia dai rischi di un sapere troppo convinto di sé, di quella presunzione umana che Giacomo denunciava ne La ginestra: «Io sono qui / e quello che ho compreso / è già disfatto / senza peso senza forma / e quello che ancora / potrei comprendere / sposta la bussola / verso mari ignoti / che mai varcherò / e quel poco che ho creduto / di sapere ora è già un fossile / che forse qualcuno / raccoglierà per capire / che nulla di quel poco / che sapevo era come lui / pensa ora di sapere / le stesse cose / che io credevo di sapere». (p.225)

Mi sembra un testo bellissimo e cruciale, su cui dovrebbero meditare tutti coloro che tuttora presumono di sé, della propria atteggiata sufficienza.

Giulio Ferroni

Prefazione

 

 

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