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PARAGRAFI SU LE COSE DEL MONDO DI PAOLO RUFFILLI di Alessandro Scarsella

PARAGRAFI SU LE COSE DEL MONDO DI PAOLO RUFFILLI

A proposito di Piccola colazione (Garzanti, 1987, 3° ed. 1994), Giuseppe Pontiggia aveva osservato l’adesione critica ma indiscutibile di Paolo Ruffilli alla cantabilità “tra Metastasio e Gozzano”, conforme a un percorso tematico di maturazione/disincanto: “Per costruire questo romanzo di formazione autoironico, questa commedia in sei atti” (P. Ruffilli, Variazioni sul tema, Torino, Nino Aragno, 2014, p. 251). Colpisce come l’esapartizione sottolineata da Pontiggia sia significativamente ricorrente anche in Le cose del mondo (1978-2019), Milano, Mondadori, Lo Specchio, 2020 (che sarà citato da questo momento con l’abbreviazione CM). Che tra le due raccolte si possa presupporre un legame, appare probabile considerando il carattere incipitario della prima prova e l’aspetto per ora definitivo del libro pubblicato nell’anno della pandemia, a distanza quindi di trentatré anni. La necessità di un’organizzazione simmetrica sembra pertanto voler accompagnare e assistere Ruffilli, nella costruzione delle sue raccolte, e in particolare nella densità dei 167 componimenti di Le cose del mondo, indipendentemente dai procedimenti di decantazione e rielaborazione delle strutture, nonché della variantistica osservabile in alcuni testi. Si avvertono costanti quello stato d’animo di vigilanza e di autocontrollo che mettono in crisi e ridimensionano i compiti di interpretazione della poesia, in difficoltà con un autore che gestisce il proprio talento in autonomia totale e con “sapienza poetica” consapevole. La questione dell’interazione e sovrapposizione tra lingua viva e poesia, così come gli altri possibili interrogativi del critico sono stati infatti già anticipati, trovando risposta nello scritto anteriore di Ruffilli, “Appunti per una ipotesi di poetica”, dove si avvisava preliminarmente che l’empatia con il lettore è esclusa in partenza, almeno come obbiettivo pregiudiziale della poesia (P. Ruffilli, Natura morta, Torino, Nino Aragno, 2012, pp. 101-119). Un’asserzione decisiva, che non ammette repliche, quantunque formulata con severa dolcezza. Come è possibile, a contatto con Ruffilli, non rimanere sempre un passo indietro rispetto all’autore? Può aiutare la ricognizione in quella variantistica, ossia l’individuazione del tipo di elaborazione alla quale Ruffilli ha sottoposto il testo originario?
Mai più
Il termine ridotto
all’incredibile
con tutti i suoi sospesi
rimorsi e sottintesi.
Un punto fermo
al resto che si muove,
pensato e ripetuto,
pronunciato
come dato impossibile:
“Mai più”.
Per ciò che si poteva
e che non fu.
(Variazioni sul tema, cit., p. 9)

Il termine ridotto all’incredibile
con tutti i suoi sospesi, rimorsi
e sottintesi. Un punto fermo
al resto che si muove tutt’intorno,
pensato e ripetuto, pronunciato
come dato impossibile: “Mai più”.
Per ciò che forse un giorno
si poteva e che non fu.
(CM 81)

Da 12 a otto versi più lunghi con l’addenda di due emistichi forse un giorno/ tutt’intorno, che mettono in rima un endecasillabo e settenario. La rima (o semirima) attesa, delusa, presupposta e allusa, e tale nel grado di apertura/chiusura da essa stabilito da ricostituire una rete concettuale. Gli oggetti stessi, però, le cose evocate e ricorrenti hanno la medesima funzione costruttiva sul piano paradigmatico.

Una diversa concezione del verso

Con piena evidenza la progettazione del singolo componimento attraversa una diversa concezione del verso, una misura che esula dall’isolamento della frase senza voler restituire forme della tradizione. Come immediatamente dopo dimostra “Memoria”, dove le nuove opzioni e le integrazioni tendono a ricostruire non il sistema di versificazione soggiacente nell’orecchio del poeta (e del lettore), bensì la prosodia di un parlato:

Se no lei preferisce
spegnersi da sola
tagliarsi ponti
e connessioni
fino ad affogarsi
da ribelle.

perché sennò lei stessa preferisce
spegnersi da sola, tagliarsi i ponti
fino a sprofondare e ad affogarsi da ribelle.
(CM, 83)

(Ivi, p. 11)

Come si leggeva negli “Appunti”, questo significa: «comporre i frammenti in un organismo più grande” (Natura morta, cit., p. 109). Dal frammentario al lapidario, dunque, a volte accentuando sorprendentemente la componente sentenziosa a discapito delle potenzialità orfiche? Non si deve però pensare che, nel suo impegno di superamento del frammento e di ricostruzione dell’edificio, Ruffilli sia guidato dall’urgenza esclusiva di un paradigma o di un macrotesto narrativo, come potrebbero indicare

a) lo spostamento di “Navigazione” (Variazioni sul tema, cit.,, p. 23) dalla sezione La notte bianca alla sezione eponima Le cose del mondo (CM, 114) con il titolo “La Barca

b) l’esclusione di “Abbagli”, già componimento di chiusura della medesima sezione (Ivi, p. 31) e quasi di congedo, con i due versi finali «Le mirabili cose / del mondo» che preannunciano il timbro della raccolta del 2020. La pietra scartata dal costruttore diviene testata d’angolo, almeno e solo per il titolo.

Ma poi tutto l’insieme sembra evaporare come parte di un altro tutto e con esso la certezza conseguita, a futura memoria, di un nuovo stato delle cose. Non a caso le liriche di chiusura (CM 189-197), dopo l’esperienza-conoscenza e la riconquista del silenzio, ripristinano un andamento spezzato di frasi brevi e di parole-verso: «il vecchio si fa nuovo / un’altra volta». La macchina del desiderio rimette in moto la vita e, con la vita, la poesia come nominare, memorare, descrivere, tornando “pura” oltre ogni definizione di scuola. Questo appare l’epilogo di un movimento di catabasi, di discesa che tocca il limite (CM, 21) e ritrova la luce (resuscitato e vivo un’altra volta, CM 33). Il partire della prima sezione, “Nell’atto di partire” è sì un atto mancato, precedendo tuttavia la dialettica, quella di un confronto necessario: “Morale della favola – per mia figlia”, che è la premessa della fenomenologia, dell’andare verso le cose stesse della quarta e della quinta sezione: “Le cose del mondo” e “Atlante anatomico”.
Che la tradizione sia non prescindibile sembra un fatto personale del poeta che non deve coinvolgere il lettore, almeno immediatamente: non è questo il tavolo sul quale deve giocare il lettore, sembra far capire Ruffilli anche quando, nel processo di coagulazione dei versi nel componimento propone la sequenza di 14 versi di un sonetto (CM 41, 89 155, per es.); a volte i versi sono 13 (CM 30 …), o anche meno, sebbene la struttura in filigrana e lo spirito restino quelli del sonetto. Il verso risulta in ogni caso intimante frazionato e soggetto a distribuzione alternativa in misure comunque preferibilmente esorbitanti il 10° piede.
L’uso dei tre punti sospensivi, frequente, è in poesia il lusso del fuoriclasse che Ruffilli può permettersi, certamente, ma che lo soccorre magnificamente nel contendere terreno a quell’astrazione che, divenendo maniera, scade nell’astrattezza. Analogamente, sembra Ruffilli avvicinarsi alla cifra della poesia ontologica per poi ritrarsi con l’interpunzione prudente, un aggettivo in più, o una rima tendente a riportare la parola alla realtà della lingua viva e al contesto interdiscorsivo che ripudia a ben vedere l’assoluto dell’asserzione perentoria.
Splende anche in questa raccolta cumulativa la disciplina maturata in anni di infinite collaborazioni editoriali in qualità di curatore di edizioni e direttore di collane e approdata a una competenza totale. Un contributo con pochi precedenti nel profilo di un poeta, a cui occorre aggiungere l’impegno severo come traduttore della poesia moderna, con attenzione particolare alle voci del canone del Novecento dell’Europa orientale: Kavafis, Mandel’štam, Achmatova, Pasternak. Nel corpus di queste traduzioni spicca una regolarità sintomatica: l’assenza del testo a fronte, in quanto scelta anticonformista che contrassegna l’interruzione della metamorfosi interlinguistica da parte del testo di traduzione, scrittura consegnata all’atto della lettura ripudiando l’ambiguità precettistica del confronto binario tra traduzione e originale. Va forse colta a questo punto, ovvero nello scansare la vacua idea “dinamica” della poesia, la matrice della costruzione a blocchi o spazi del componimento tale da generare alternanze in base a un ritmo, a una cadenza che sembra recuperare il concetto di stanza intesa come parte di un poema:

C’è un gran sollievo andando
e un incentivo: la cadenza,
quando si muove, subito dopo
la partenza. Il ritmo trascinato
l’andatura da ripresa del vagone
favorita dall’angusto spazio
di prigione. […] (CM, 29)

Nonostante qui, ovvero nella prima sezione del volume “Nell’atto di partire”, la stanza poetica si materializzi nella metafora di un vagone ferroviario, quindi di uno spazio-dimora di contenzione e di osservazione nel contempo.
Ma ancora la sezione “La Notte bianca”, centrale e di snodo nel complesso della raccolta (e confluita in CM con la variantistica poc’anzi segnalata), si riallacciava al titolo del volume di Pasternak curato da Ruffilli (B. Pasternak, La notte bianca. Le poesie di Živago, traduzione e introduzione di Paolo Ruffilli, Castelfranco Veneto, Biblioteca dei Leoni, 2016). La citazione va ritenuta esplicita non per questo automaticamente interpretabile. Mortificando il paternalismo della critica, quando essa si bea del rinvenimento di prestiti e di calchi, Ruffilli si esprime con scetticismo sulla determinazione delle fonti e sulla decisività delle influenze (Cfr. Natura morta, cit., pp. 104-105). La scrittura di Ruffilli è tale per cui la scoperta di echi, citazioni e riusi non può aggiungere nulla, né al profilo personale né alla formula della sua poesia appartenente alla quinta e a nessuna generazione. Se le poesie di Živago siano evocate per la consentaneità di certo modo di vedere la poesia o se la notte bianca esprima un’oscurità autobiografica, in entrambi i casi la domanda deve valere di più della risposta. Similmente l’esclamazione tragica (come nella Città morta) del Mai più del Corvo di E.A.Poe, diviene un’affermazione che altrimenti cadrebbe nell’anonimato se non la pronunciasse il poeta.
Nella fondazione della poesia di Ruffilli il tempo ha collocato dei pilastri: penso soprattutto al tempo dedicato alla lettura di numerosi inediti di poesia; un tempo dispendioso, bensì mai gettato via e convergente nell’individuazione di valori germinali e di formulazioni congruenti. Alla base della poesia di Ruffilli si percepiscono la virtù della parola singola e l’equilibrio della frase che accompagnano nuovamente il silenzio; è l’allievo a creare il maestro.

Alessandro Scarsella

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