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LA CONTIGUITÀ DELLA FINE IN NOOTEBOOM

LA CONTIGUITÀ DELLA FINE IN NOOTEBOOM

Con quanta voracità l’arte replica l’essenza delle cose, e la nostra eterna fame sembra placarsi nel “desiderio nero inchiostro”. Ogni poesia di Cees Nooteboom è anche un piccolo quadro: scorcio di una scena, ritratto, natura morta. Vi si rivelano di colpo la breve luce del giorno, il silenzio “travestito da voluttà notturna” intorno alla casa, un uomo nel giardino d’inverno, una donna nella foschia, la “dolce visione di una sera d’estate” mescolati agli spettri neri usciti dai sogni. Ma i quadri si affrancano dal pittore e la loro materia diventa un altro pensiero: un dialogo con se stesso per gli altri, per penetrare nuotando nell’enigma della fine dove c’è profumo di tempo infinito e cupo presagio del vuoto per questo pianeta che naviga tra miliardi e miliardi di corpi celesti nello spazio infinito, dietro all’incognita della “fine della fine” a cui deve il titolo il libro, insieme saluto e parola scaramantica, Addio (Iperborea). Del resto, come Nooteboom scriveva in altre poesie del passato, gli dei sono mortali ai quali non è concesso di morire e dietro alle loro finestre regna l’indomabile caos, l’acqua si muta in fuoco, si libra il mare in cielo e si realizza una legge senza leggi: continua insomma a manifestarsi per il mondo “la conclusione priva di somma” mentre incalza la domanda “Quante vite stanno in una vita?”  Il nostro autore conosce bene quella che ha chiamato in passato “la poesia poetica”, con i suoi diffusi “pericoli del mal di luna e della bella voce”. E, seguace da sempre di Bashō, il poeta giapponese dello zen che contemplò e descrisse aspetti della natura intendendoli come momenti di illuminazione e penetrazione spirituale senza però cadere nell’ermetismo mistico, continua a ritagliare dal mondo immagini nette ed essenziali, versi rigorosi, attraverso la poesia che unica è capace delle “parole del silenzio”, capace insomma nel poco e nell’assenza di quell’inno del silenzio che dà voce anche al nulla. Come diceva nelle Porte della notte, ciò che svanisce “permane come qualcosa di svanito”, ma proprio in quanto tale ci consente di afferrare le cose e ci riconcilia con la “nostalgia della forma”. Esistere come dio di un fuggevole universo? Si chiedeva allora. Il sogno è un “radioso tempo senza presente”, ma il cuore del sognatore continua a battere e i suoi occhi scrivono il sogno. Sia pure nel dubbio angoscioso: “tutto scritto per niente?” Il poeta continua a tenere la contabilità del mondo come si manifesta di giorno in giorno, riesce a guardare le cose nella loro “innocenza metafisica” incerte della loro esistenza, e il loro colore ci rimane negli occhi mentre ci incalza con i suoi versi: “Volevi vivere, no? E allora volevi / solo l’oro, l’azzurro / del cielo, l’amore, il sole?” Nella consapevolezza di quell’altra verità “della notte e della nebbia” che c’è sempre sotto. Non è un caso il riferimento agli “stessi cieli / di sempre, niente di nuovo” e dunque ecco che ritorna la domanda senza risposta che Nooteboom si faceva tanti anni fa: “Cos’è la fine di qualcosa? Cos’è la fine?” Che sia “la strada senza un arrivo” di cui parla in una delle poesie dell’Addio? Anche se l’istinto lo spinge ancora e comunque alla sfida con la vita e a vivere senza voltarsi nel percorrere, tutt’altro che cieco per la verità anzi addirittura vedetta per tutti noi, “l’ultimo tratto della strada”.

Paolo Ruffilli

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