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IL RESPIRO CORALE DI DALLE LUCHE

IL RESPIRO CORALE DI DALLE LUCHE

Di Massimo Dalle Luche avevo già apprezzato in passato testi di grande profondità, e adesso di nuovo mi ritrovo intrigato nel suo ultimo libro Per dono (Book Editore), intenso e coerente per una poesia che nella sua delicata piegatura estende il respiro comune della vita al mondo vegetale e animale. È la prima considerazione che mi viene da fare leggendo queste pagine nelle quali con un procedimento di sinestesi si estende la conservazione e la sacralità della vita agli animali e alle piante. Cosa importante e coinvolgente, non solo o non tanto per la capacità di pietas che l’autore ha allargato dall’orizzonte puramente umano a quello più ampio di “vegetali anime animali”, per usare un titolo di sezione, ma, per quanto qui mi interessa, in senso strettamente letterario e musicale per il respiro corale che l’incontro degli uomini, delle piante e degli animali dentro il regno della natura porta nella poesia di Dalle Luche. Un respiro corale, direi possente, che ha scarsi riscontri nella contemporaneità poetica italiana e che costituisce un’ulteriore ragione di inconfondibile originalità. Questa dimensione di poesia creaturale è poco praticata da noi. Della “creaturalità” si è fatto interprete con ben altra forza il mondo orientale, ricco di una tradizione non solo di oralità o di astrazione di pensiero, ma di concreto agire quotidiano. Non solo i monaci buddisti filtrano l’acqua per evitare di inghiottire e di uccidere le spore o quegli altri esseri minimi che lì navigano e si muovono nella loro esperienza e avventura di vita, ma perfino i filosofi taoisti praticano materialmente la compartecipazione corale della vita assieme alle altre creature che respirano. L’attenzione che Dalle Luche ha nei confronti degli esseri che respirano è veramente a tutto campo e investe “persone” e “luoghi”  della seconda sezione del libro. Attenzione che è volta a inseguire e a pronunciare, sulla scena della poesia, la forza poderosa della vita. La vita, dunque, non come entità astratta, cioè come riflessione di pensiero, ma come trafila di attimi pulsanti, di respiri. La vita come capacità di dichiararsi da parte degli esseri che respirano con una forza che è formidabile, capace di sopravanzare tutto, perfino l’abisso di vuoto sul quale la vita riposa. Una vita che è in grado di abbarbicarsi sull’orlo dell’abisso e lì attecchire, mettere radici e produrre lo slancio in avanti, secondo gli “Indizi” che pullulano nella terza sezione del libro. Ecco, dunque, i motivi originali (e riconoscibili come suo marchio personalissimo) della poesia di Dalle Luche, oltre tutto capace sul piano della scrittura di una semplicità e di una precisione che convivono in una luce radente e tagliente. Una luce che mette a nudo le cose per amarle, senza bisogno di volontà consolatoria e senza aloni di nostalgia. In una poesia che definirei perfino antielegiaca e che fa pensare, come possibile riferimento e antecedente, al più dimenticato e bistrattato dei nostri poeti del Novecento, Umberto Saba. Nel segno di una limpidezza “crudele” dentro la dimensione creaturale, dove la crudeltà è esclusivamente formale e serve a mettere in rilievo, a valorizzare appunto, quella pietas di cui si diceva. Proprio come in Saba, anche nella poesia di Dalle Luche le vicende del soggetto si appellano continuamente al mondo come contesto, come sede di quel flusso esistenziale da cui solo contingentemente si distacca l’io individuale. Cosa che, tra l’altro, crea l’intreccio costante di lirismo e racconto frantumato, di eleganza del ritmo e quotidianità del lessico. Ai diversi registri espressivi corrisponde una materia autobiografica densa e angosciata, in una continua scissione tra l’apparente facilità delle parole e la profondità delle analisi, nella potenza dei sentimenti portati alla luce.

Paolo Ruffilli

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