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I VERSI DEL PERDERSI DI CAVICCHIA

I VERSI DEL PERDERSI DI CAVICCHIA

Più ancora che la solitudine e il silenzio, nella trama segreta e intensa di queste poesie di La solitudine del fuoco di Daniele Cavicchia (Passigli) io vedo lunghi e delicati dialoghi a mezza bocca. Qualcosa di austero e profetico, che esce in forma di pensiero dalla bocca dell’angelo. Gli occhi parlano, le assenze protestano, il silenzio si innesta come una linfa nuova e fertile nei rami del pensiero. “Il bosco non era un bosco, il lago / non era un lago, il fuoco non era fuoco / ogni parola confondeva il significato / tentando di creare un nuovo alfabeto / lungo i gradini afasici di Babele. / Quale parola mi appartiene?”  Ecco, questo interrogarsi fra ironico e disperato mi è rimasto nella memoria leggendo le poesie filosofiche di Daniele Cavicchia. Le parole segnalano le cose ma poi le cose si rivoltano, diventano altro, si allontanano dalle definizioni. Le parole parlano veramente, o sono alla fine solo dei silenzi? Quale parola mi appartiene se il bosco non era un bosco e il lago non era un lago e il fuoco non era un fuoco? “C’è sempre un momento nel quale ci si perde / e si spera di rinascere – frammento tra frammenti –  / nel caos della polvere, e darsi un ordine, / indicarsi uno scopo perché si sa che esiste / e che si scoprirà dopo quando lo stelo / sarà ripiegato perché non sopporta più il sole”. Quindi è la sicurezza del perdersi che costituisce l’anima nascosta di questi versi che si dicono e si dissicono, si spogliano di ogni virtù per sostare sull’orlo di un salto nel buio? Il perdersi non procura dolore, ma solo un momentaneo smarrimento a cui seguirà la voglia di ritrovarsi. Perché si confida che nel caos della polvere  ci sarà infine un ordine, ci si indicherà uno scopo, e dopo, ma solo dopo, si scoprirà quanto lo stelo sia stato piegato, e quanto abbia subito la pressione del vento e delle acque e come poi, come ogni stelo agile e leggero, sia risorto alla propria intelligenza, superando i rischi dell’annientamento. Si può dire che in questa prosa ritmata e danzante Cavicchia si faccia stelo, umile e disponibile alla marea delle parole, per poi risorgere, gentile e sicuro di sé, con altre poesie, che ricominceranno, nel buio delle cose, a chiedersi, raccontarsi, ritrovarsi.

Dacia Maraini

Prefazione

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