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L’ELABORAZIONE DEL LUTTO IN ENZA SILVESTRINI

L’ELABORAZIONE DEL LUTTO IN ENZA SILVESTRINI

Date parole al dolore dice Luigi Cancrini. Trovare le parole per esprimere fino in fondo il nostro malessere e l’angoscia, attraverso un viaggio dentro noi stessi. A volte alcuni libri sono un viaggio, un’ opportunità, un incontro speciale con delle parti di noi che fanno fatica a mostrarsi. Enza Silvestrini, in questa sua nuova silloge, Controtempo (Oedipus edizioni 2018), affronta un tema doloroso e difficilissimo. Coniugare la poesia con l’epica laica del dolore per la perdita. Raccontare come il tempo, che passa e travolge inesorabile ogni cosa, andare contro il tempo che porta a cancellare, fare memoria dei dettagli, degli sguardi, dei piccoli gesti, delle cose minime a cui si aggrappano i ricordi. “Cuncta fluunt, omnisque vagans formatur imago” sono parole di Ovidio, nelle Metamorfosi (XV, 177-8, 184-5, 252-3: “In tutto il mondo non c’è cosa che duri. Tutto scorre, e ogni fenomeno ha forme errabonde”. E “poco a poco/ il mondo scompare/ inghiottito dal buio nulla …/ anche i nomi/ tutti i nomi/ quelli delle cose dell’amore, dell’ira o di ciò che resta/  vanno via in qualche botola lontana”. Perdita, separazione, distacco, smarrimento, confusione. Tra malattia e morte. Le cose semplici  diventano drammaturgia quotidiana del corpo malato, della mente che si va spegnendosi, nel danno clinico. Il tema della morte e del morire, dimensione scottante e spinosa per il mondo occidentale, scotomizza l’integrità del ciclo della vita, cercando di entrare in contatto con la parabola ascendente e omettendo l’altra parte della ciclicità. Raccontare e raccontarsi, come spiega Duccio Demetrio, è una medicina che lenisce il dolore e ci rende consapevoli della fragilità umana. “Mi porto qualcosa che non sia perfettamente franato/  c’è bisogno di una radice da piantare in esilio la pretesa di esser vivi in questo universo di morti/  incalza lentamente/  imbarcarsi di nuovo e partire trovare terre da coltivare/ altri uomini da uccidere/  e lasciare traccia di sé”.  Attraverso questo diario in versi,  Enza Silvestrini affronta con raffinato garbo e immensa delicatezza tutte le fasi dell’elaborazione del lutto. Così il verso si incarna nell’etica del dolore, centro propulsore dell’atto creativo ed espressivo. La scelta del titolo e del testo in quarta di copertina fa capire in modo istantaneo la poetica implicita nella silloge. Controtempo, contro il tempo tiranno che cade come una mannaia sul presente, tagliando il futuro, cancellando il passato. Una parola secca essenziale,  efficace, che passa dall’identità personale a quella duale, tracciando una spirale che abbraccia l’intero cosmo, il gesto particolare che si amplia in una tenerezza universale verso il destino di ogni creatura. “Comincia sempre/  con piccoli smottamenti/ perdite di significati/  tenui apparentemente soffici svagatezze di  Non ricordo/ Adesso mi verrà in mente/  cui nessuno vuol dar peso./  Restiamo così fermi ad aspettare/  che qualcosa avvenga”. Una conversazione intima e sofferta con chi si sta allontanando, per passare in un altrove e nel suo indicibile mistero. Parlare di meditazione  attraverso la poesia non è semplice. Eppure ogni pagina qui traccia un percorso meditativo che rappresenta una strategia poetica di sopravvivenza al dolore della perdita. Il recupero della forza e della tenerezza  rappresenta un ossimoro lirico che diventa programma di resilienza, di resistenza esistenziale, di ascolto delle parti profonde di sé.  “Si precipita poi/ con un tonfo improvviso/ basta un qualsiasi incidente/ un osso logorato/ una parola inascoltata / si sbriciolano rumorosi/  in questo nuovo continente dove approdiamo/  per effetto di venti contrari/ dall’otre aperto spirano con furia/ e improvvisa quiete / tu resti centro e sei ignota”. Il sacro è ancora patrimonio collettivo e condiviso, nel farsi logos che domina e seduce il reale. Un sacro che appartiene all’enfasi della classicità più antica. Non è un caso la citazione di Ovidio prima ricordata e poi dal II libro dell’Eneide. Animus meminisse horret:  l’anima trema d’orrore nel ricordare. La poesia e la scrittura diventano un atto di resilienza, sopportare il dolore e nel dolore trovare la propria voce. Nella silloge il dialogo tra un io e un tu è un continuum. “Tu diventi una voce indistinta/tra quelle che affollano il mio Ade/ forse sei quella sottile/ che bisbiglia parole confuse/ o la salmastra e roca che si confonde coi tonfi del fiore/ sei regolare in ogni tuo eccesso/ rispondi ancora al richiamo del nome”. Un linguaggio pienissimo di metafore domestiche che afferiscono al quotidiano, fa da traccia intertestuale per ogni pagina, fino a far emergere un noi, vissuto come una invocazione  intima e spirituale, scrivendo il senso di una pena che ci rende uguali e connessi. Un’ orizzontalità oracolante che non offre risposte ,  ma che vuole porre gli accenti sulla vocazione esistenziale che abbraccia l’umanità nel suo umile porsi davanti alle cose, alle persone, ai corpi. “Dalla cucina alla stanza contiamo venti passi/ riducibili a quindici con un poco di sforzo/ le finestre qui sono tutte sullo stesso lato/ da est a mezzogiorno/ per filtrare sole e pioggia/ ti mostro gli spifferi nel cuore della notte/ che confonde le pareti e i mobili di legno/ pieni di cassetti e lenzuola bianche/ Tu conservi anche quelle strappate?” Non è mai operazione semplice distaccarsi da chi abbiamo amato, dalle nostre radici, dai nostri punti di riferimento primari. Abbandonare ciò che siamo stati, accettare ciò che possiamo diventare, fare i conti con ciò che saremo. Lasciare con la persona che muore una parte di noi che muore con lei, la nostra infanzia, una relazione, un mondo compiuto dalla intersezione di quei due esseri unici e irripetibili. Un cammino doloroso che Enza Silvestrini racconta, e ci rende testimoni accorati di questo ineluttabile strappo. La figlia si trasforma nella madre della madre morente, la madre tornata bambina perché inerme nella dimenticanza e nella confusione. “Sminuzzi il cibo/ con tecniche remote/ apprese in tempi di razionamenti/ dici di ricordare/ l’edificio che vi accolse/ tende pentole per la pasta/ giochi furtivi adulti adirati/ il segreto dei nascondigli / degli uomini braccati/ chi tornava restava/ ma nella mia testa si sparpagliano le parole di adesso le parole di allora/ i  dadi vinti dalla nostalgia”. Ogni verso ha la forza del canto sussurrato sottovoce, il ritmo dell’inspirazione e dell’espirazione, il pathos epico della meditazione silenziosa che rafforza. Scrivere per trovare il senso della propria vita, in ogni minimo dettaglio. La segnatura della battaglia della sopravvivenza, insita nella genesi femminile già durante l’infanzia, la ricerca dell’amore come inclinazione al dialogo con l’altro, inteso nella sua declinazione più ampia, l’altro come natura, come altro da sé, come riflessione corale sul disarmo esistenziale.

Floriana Coppola

Letteratemagazine

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