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ANTONIA POZZI E IL SILENZIO

ANTONIA POZZI E IL SILENZIO

Non esiste un silenzio assoluto, perché il nostro percepire rimanda sempre a un’esperienza effettiva, per cui, come ha sperimentato John Cage, anche in una camera anecoica resta sempre il pulsare del sangue, il respiro, il battito del nostro cuore. Premesso questo, anche il silenzio della natura va inteso soprattutto come atmosfera quieta di quei luoghi che si contrappongono al «frastuono» di Milano, città della poetessa comunque amata: Tutte le opere (Garzanti). In particolar modo Antonia Pozzi cercava «il silenzio proprio dell’alta montagna, dei luoghi di natura estranei ad ogni antropizzazione»: da qui la passione per le arrampicate sulle rocce, per le cime. Lo scalare per tentare di avvicinarsi all’«eterna luce». Tale silenzio, allora, può divenire paradigmatico per l’io poetico: «anima, sii come la montagna: / che […] / […] sola, in alto, si tende / ad un muto colloquio col sole» (Esempi, 1931). È per questo che Pasturo o altre località montane erano l’ambiente prediletto in cui riossigenarsi, fuori dalle convenzioni. In un silenzio che investe il linguaggio stesso: «Tu scusami se queste righe sono un po’ scarne e impacciate: ma le mie montagne mi fanno povera di parole consuete. Del resto, non ce n’è bisogno qui». Va poi sottolineato che a Pasturo Antonia Pozzi aveva una silenziosa «stanza segreta», luogo di meditazione e riposo, uno spazio esclusivo e unico, speculare agli spazi dell’aperto silenzio montano: «[…] il mio studietto, qui, in alto, è ben riparato e, mentre gode del silenzio e della solitudine di una cella, ha pure tutta l’apparenza ed il tepore di un nido». Così, a maggior ragione, si può dichiarare: «[…] sono nella calma olimpica e nella pace arcadica del nostro Pasturo». Antonia si addentra, spesso da sola, nella natura per un contatto libero e profondo con le cose, per osservare e ascoltare, riflettere, misurare le proprie energie fisiche, le proprie speranze, per provare ad assimilare il dolore. Per rigenerarsi. Fino al punto di potersi sentire anche «stanca di questa pace». Il silenzio che, di per sé, è fattore necessario al benessere psico-fisico, diviene per lei, in questo contesto, sorgente vitale. Oltre a essere elemento di bellezza, candido incanto, Rifugio (1936) in cui sembra non possa mai giungere il buio del vivere. Se non come oscurità liquida e astrale che immerge nel «sonno» (Notte, 1937?). La natura abbonda di suoni e linguaggi, tuttavia in essa regna anche il silenzio. Certo, neanche in alta montagna può esservi silenzio totale perché il vento, le frane, «il tonfo dei sassi / dentro i canali» (Rifugio, 1934), lo sciogliersi dei ghiacci, il rumoreggiare dei torrenti, i versi degli animali sono anche presenze acustiche. Ma, in quanto tali, sono complementari al silenzio, lo rendono musicale: “C’era un silenzio infinito e pur denso di suoni…”   …

Tiziana Altea

antoniapozzi.it

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