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LA FIGURA DELL’IO IN ANNA MARIA CARPI

LA FIGURA DELL’IO IN ANNA MARIA CARPI

Il carattere primo sia della poesia sia della vicenda poetica di Anna Maria Carpi è la singolarità. Nata nel 1939 a Milano, ha cominciato a pubblicare piuttosto tardi, all’inizio degli anni Novanta, quando i poeti della sua generazione, ma anche di quella successiva, già da tempo avevano trovato un’identità e una collocazione precise. Trattandosi di una persona di lettere, in particolare di una studiosa di letteratura e, tanto più, di una traduttrice molto apprezzata della poesia tedesca, una simile sfasatura ha di per sé qualche significato. Questo tuttavia non è che il tratto più esterno di una differenza più sostanziale che la Carpi lungo tutto il corso della sua opera in versi non ha mai smesso di rivendicare, e che riguarda i modi stessi dell’espressione poetica e insieme, a livello tematico, il sentimento del proprio particolare destino, l’inconciliabilità, non importa se nel bene o nel male, del proprio sentire con quello degli altri, a partire dal riconoscimento di una ferita iniziale  ̶  “la macchia dell’origine perdura”  ̶  mai risanata. Introducendo la raccolta antologica E io che intanto parlo. Poesie 1990-2015 (Marcos y Marcos) di Anna Maria Carpi, Fabio Pusterla ha scritto che “tra l’inaccettabile, dolorosa solitudine di un  io ferito e l’impossibile annullamento o fusione dentro la vita degli altri si apre il territorio arduo della ricerca di senso” di questa poesia. Il che è senz’altro giusto. Ma forse la situazione è ancora più complessa e contraddittoria. “O follia del dire io son diverso/ e non sapere come andrà a finire./ O mio destino singolo e perdente:/ certo,  è perverso,/ ma solo in questo è gioia”, scrive la Carpi. La figura dell’io che si disegna in questa poesia  ̶  una poesia visceralmente, pervicacemente egocentrica  ̶  oscilla di continuo attorno a questo nodo che di fatto non può essere sciolto, pena l’annullamento di un’instabile, sofferta ma in ogni caso ben riconoscibile identità. Ecco allora che le situazioni poetiche sono tutte variazioni di uno stesso incontro-scontro tra opposti: desiderio di radicamento e insofferenza per ogni possesso o fisionomia garantita, la ricerca della comunione con “gli altri” (continuamente evocati come per contrappasso: nei bar, nei metrò, negli aeroporti, nei supermercati, nelle stazioni, sui treni), ma al contempo la pretesa di una redenzione esclusiva del proprio io. C’è un fondamento drammatico inamovibile nella poesia di Anna Maria Carpi, rispetto a cui l’immersione nella vitalità o l’aggiramento ironico non rappresentano che il tentativo di allontanarsi da un demone da cui non si può, da cui non si vuole fuggire. Proprio l’affermazione di questo diverso modo di vedere le cose, di pensare la vita, di scrivere, costituisce il punto di forza e insieme il limite di queste poesie. Un punto di forza perché la poesia non si nasconde niente di una simile contraddizione, ne rende anzi ragione con intelligenza, con presenza di spirito, tante volte con acutezza. E’ capace di parlare in modo diretto, scoperto, leale. Ci sono poesie che danno voce con molta efficacia a questo io diviso che non si piace, insofferente di sé, ma che pure ora desidera conforto e tenerezza, ora invece brama insaziabilmente riconoscimento e attenzione; un io beffardo, risentito, spesso invidioso che si taglia fuori ma che pure non accetta niente di  meno che il tutto (“O io sono immortale oppure niente”). A questo punto non si tratta di io, ma di un rovello personale che diventa una sonda di conoscenza, un punto di vista davvero singolare  ̶  per restare al paradosso  ̶  sulla vita di tutti. Sull’altra faccia della stessa medaglia, tuttavia, la figura della singolarità viene ribadita con tale e tanta insistenza da diventare anch’essa  talora un partito preso, un cliché. Questo accade quando il pensiero anziché trovare nelle risorse della lingua un ostacolo e un approfondimento, vi si abbandona invece come a uno scivolo, a una semplificazione. L’impressione allora è di qualcosa d’irrisolto, di non accordato, di schematico, quasi uno slogan; qualcosa che avrebbe potuto esprimersi meglio  in un’annotazione in prosa, in un aforisma, in un racconto. Un esempio per tutti: “Credere è duro,/ non è un trip da poetico new age./ Certo sarebbe bene che Dio fosse  ̶  / per far giustizia: grida vendetta quello che succede/ ogni giorno nel mondo”.  La musica della lingua, quale essa sia, qui non si accende. I lettori più attenti di Anna Maria Carpi hanno spesso sottolineato come la sua poesia non si affidi a un gergo poetico predefinito. Quanto a tradizione poetica evocherebbe piuttosto modelli russi e tedeschi tra Otto e Novecento. Che non si tratti di uno dei tanti codici poetici a cui siamo abituati credo sia indubbio, anche se è vero che la presenza di Caproni è evidentissima: le interrogazioni radicali, l’orizzonte metafisico-teologico, il verso tante volte secco e appuntito, l’andamento a strappi del discorso, l’impasto linguistico essenziale e un po’ amarognolo, la rima ironica posta in clausola, la preminenza del pensiero, il riso, la rabbia, il sarcasmo, gli infiniti congedi degli altri e della realtà che non impediscono però di continuare a parlare, di evocare presenze. Appunto: E io che intanto parlo. Il vero traliccio della poesia della Carpi viene dal Caproni degli anni Sessanta e Settanta. “Perché andate? Vi prego, non andate!/ Restiamo assieme  ̶  dov’è chi potrebbe/ uno per uno mai consolarci?”. Altro che lingua d’uso, dunque. Qui c’è un retaggio poetico ben preciso, ed è senz’altro un bene.

Roberto Galaverni

La Lettura del Corriere della Sera

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