Valerio MelloValerio Mello è nato ad Agrigento nel 1985 e vive a Milano. Ha pubblicato le raccolte di poesie: Versi Inferi (Tracce, 2010), La nobiltà dell’ombra (Nota critica di Guido Baldassarri, La Vita Felice, 2013), Asfalto (Nota critica di Alessandro Quasimodo, La Vita Felice, 2014), Giardini pensili (Nota critica di Rosalma Salina Borello, La Vita Felice, 2015), Cercando Ulisse (Pequod, 2017), Da qualche parte nella vita (Pequod, 2019). Fra i contributi critici dedicati alla sua opera e apparsi in rivista, si segnalano: Roberto Salsano, Una poetica di ombra e di luce: Asfalto di Valerio Mello (Misure Critiche), Curzia Ferrari, Labirinti dell’io (Studi Cattolici).

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valerio.mello.85@gmail.com

 

POESIE

da LA NOBILTÀ DELL’OMBRA

*
La strada si interrompe sul finire del campo
e fino all’orizzonte è il mio universo,
la strada che conosco ad ogni risveglio
è il tentativo di declinare confini e verbo,
la remota possibilità di conoscere il vasto
paesaggio, le combinazioni, il dentro,
ma sempre a capo lo sguardo mi tocca riportare
provando a riscrivere della radice dispersa
e questa ricerca è l’assurdo compimento.

*
Parla l’euforbia che mai disse,
parla una lingua che muta in fretta,
dialoghi cela, suoni fra l’erba.
Spine rivela e frammenti
per quest’aria aperta,
vagano i termini che furono umani,
oggi arbusti e freddi.
Io so che nel tuo fusto legnoso
trattieni il fiore più delicato,
e so che nel lungo attendere
nemmeno tu odi risposta,
ma dimmi se ora anche un velo
e una breve ombra
sopravvivono alle tue foglie,
dimmi quanto io non possa dire,
dimmi prima che si confonda questo dire.

da ASFALTO

*
Ci costruiscono le date
vestiti che non vorremmo indossare,
per tutta l’esistenza
siamo e restiamo quelle date,
decorriamo da una data,
scritti in una data,
nascita e compleanno,
avvenimento,
anno segue anno.

Oggi vivrei di buona voglia
in questa putrida fabbrica dismessa;
sarei carcassa di lamiera
e scheletro di bicicletta;
allontanerei dal mio essere
l’idea d’essere solo un concetto,
relegato nel mero tempo,
farsa d’un nero esempio.

*
Non sono più vivo se penso di essere umano,
preferisco confinato rifiuto degradato.
Con Demetra scompaio sui fiori della notte,
la corolla spezzata, la radice inquinata,
nel marcio frantumato,
lentamente, sempre lentamente,
cadono bruciate cortecce.
Io so profondo il desiderio d’essere estraneo
all’usuale e lento accanimento della vita.
Non mi è sufficiente essere ordinario.
Male è sopportare questa futile arsura,
spina, dovunque è fatica,
la mente si asciuga
(contatto infezione officina):
versi ho timore di vomitare,
sangue dalla bocca, versi
senza direzione,
versi contro tutti i versi,
e vivo di verde e di contaminazione,
versi da macello,
desolato trasportarmi per una landa brulicante
di vermi versi.

da GIARDINI PENSILI

*
L’anima è il posto non raccontato,
dove crescono gli scheletri dei fiori;
e tutti gli scheletri dei fiori sono l’anima.

Ho lasciato le chiavi in quel terreno:
le chiavi immisurabili dell’io.

L’anima è dove deve essere.
Le verdeggianti foglie,
le digiune foglie. Il giardino in cui convivo
con l’individuo continente pensiero:
ornamento circoscritto all’impianto ferito.

Sento quando mi spengo.

*
Non ho mai detto tutto
al volto increspato del dio di pietra.

Scomparivo nelle sepolte preghiere,
nel sudore dei mandaranci a fondovalle.

Porto le zolle di un cuore
mai vinto dal passato.

*
Sarà una coincidenza
Integro e un po’ sbiadito
Lo scontrino di una libreria
Piazza Duomo
Cassa quattro
Ventitré ottobre duemilaundici
Ero in fila o no
Fossile vortice
Esile cifra strappata a quei portici
Quanto ricordare io debbo
Se conservare è stato un istinto
Affioro dall’interruzione
Inizio a salire

da CERCANDO ULISSE

*
Lo specchio sta guardando il riflesso. Ma del contorno dell’immagine non conosco la prosecuzione. La fisica distribuzione dell’essere lungo le ore a perdersi.

L’atto del giorno si muove nel disegno delle proiezioni: un paesaggio di scorrimano e ringhiere; il ferro battuto come ombra sui muri in salita. La scala dall’interno conta il giro operato dai gradini a spirale verso il dio degli insiemi.

La sera è il nome che do al giorno nascosto.

*
Lo riconobbi subito, era sempre lo stesso orologio. Volli chiamarlo, ricordargli che il tempo ci invita a una eccessiva arrendevolezza. L’orologio della stazione era frantumato, piegato sulla battuta serale, mentre i binari entravano già nell’argomento di una definita penombra e i palazzi sporgenti si riconoscevano nei soggetti distanti del tramonto. Un’altra volta a casa mia.

L’orologio seppe tralasciare i dettagli irrilevanti e mi affrontò con la forza di termini usati dalla membrana del passato e fu pronto a restituirmi la mia immagine, il fiato compiaciuto di una parte abbandonata e intensamente desiderata.

*
Esco dalla posizione del silenzio per cercare il fiume nato dalle caverne misteriche, la cerimonia del tempo liquido sopra la variabilità dei rilievi presenti; per celebrare l’altro silenzio conosciuto come quiete che si accosta alle ore… per gli estremi piani erranti.

*
Il cielo è un crepaccio, sorge con la saggezza delle rifiniture. Va digradando verso il guscio dei sepolti, risalirà all’olimpo dei vivi. Così, come il cielo, fibra dopo fibra, fra piaghe di radici e odore chiuso di fanghiglia, si liberò la Gorgone, il mostro che dilaga con l’aspetto grave e nobile nel mondo fisico. Nel riverbero… cosa ricorda il mondo delle sue chiome intrecciate di serpi… rimovibile l’ente artificiale, rimovibile l’ente dell’essere… il mio essere libero da ogni altro essere… ma sono artificiale? Aspetto ancora l’evoluzione dell’essere… medito sullo splendore apparente.
Il mio mostro in me si riconosce, si dichiara sincero e autentico. È la possibilità dello spostamento, è quel che conosco come capacità di aderire ai flussi luminosi.