Sandro Varagnolo è nato nel 1946 a Venezia, dove risiede. Dopo la plaquette Il passaggio interdetto (prefazione di Cesare De Michelis, Edizioni Helvetia, 1984), ha pubblicato La carta della sera (presentazione di Fernando Bandini, Edizioni del Leone, 1985, finalista del Premio Viareggio opera prima 1985 e vincitore del Premio Pedrocchi 1986), La veduta forma (premessa di Massimo Cacciari, Anterem Edizioni, 2011), Memoriale della pietà (premessa di Flavio Ermini, Anterem Edizioni, 2014, finalista del Premio Lorenzo Montano 2013 per la sezione Raccolta Inedita), Catabasi (Anterem Edizioni, 2017). Con Apologia è risultato finalista del Premio Lorenzo Montano 2020 per la sezione Raccolta Inedita. Con L’alto muro ha ottenuto una segnalazione speciale al Premio Lorenzo Montano 2022 per la sezione Raccolta Inedita.
Ha svolto attività editoriale e di pubblicista, curando, tra l’altro, per le Edizioni San Marco Libri, l’Apologia di Socrate e il Critone di Platone (con relativa traduzione), I piaceri viziosi di L. Tolstoj e Tutte le poesie di Giuseppe Cesetti. Le sue poesie sono state pubblicate su riviste (Poesia, Anterem, Il Segnale, EQUIPèCO) e inserite in antologie.

sandro.varagnolo@yahoo.it

 

POESIE

da LA VEDUTA FORMA

Astuto navigante
che ambo i penetrali
hai sperimentato e l’egoismo
del dolore: è questo il tempo
della lavanda e delle palme deluse.
Annienta lo sguardo della vita
se la perdizione ancora
incute fecondità.
Fu alibi e metafora l’argilla,
sui camminamenti infidi
arretra la provata ingordigia.
Come rostro nel petto il veliero
lascia la riva.
La scheggia che adizza i ritorni
trascura le mani, a pena
becchetta la starna. Così
è la balìa rapace, così
lo smalto dell’afflizione.
Nessun cedimento o tregua
sulla via del sacrificio:
la goccia assapora, il bando.
Tutto è consumato
non sia la tua urgenza brace.

 

La vastità del corpo si contempla
nella folgorazione
del cominciamento e del riverso.
Corpo vulnus e pregiudizio
corpo limite, atlante
corpo diabolo, strategia.
Corpo anabasi e perimetro
in che s’invera e si affastella
il mistero della carne.
Corpo mater e pre/testo
il dedotto, l’incoercibile:
necessario si palesa
nella strada insondata
negli scarti, nel più raro
e as-soluto dialogare.
Territorio, ipocrisia
unica possibilità
che sazia
——–che ascende
—————–che concepe
corpo ritmo, corpo esilio
specola e afrore.

E quando fibrilla la penombra
la realtà del corpo si divina.

 

In verità
primavera non è questa che ci insegue,
è questo il mese
del duello e del setaccio.
Appassisce l’ibisco, vane
le fattezze sinuose del giunco.
Trafitti i polsi
la bocca inaridita dai capelli
è similitudine che attarda,
come la fissità del luogo delle pene
e del respiro rimasto inascoltato.
Farsi distacco, ordire coincidenze,
dimettere l’obolo e i calzari:
di ciottoli e facelle si calcina
l’umida notte.
Il sapore dell’acqua insiste
a numerare la pioggia
diletta sui tegoli. Glissa
l’ascosa partitura dell’affanno
e del peregrinare,
cigola il pozzo, inciampa
l’insensata controversia.
Non è con gli occhi che si alluma l’inebriato
approccio del tramonto,
l’albero è caduco, rimugge
l’impensabile scenario dell’abisso.

 

Nemmeno il filo d’erba
lo stormire del bosco
nemmeno le primule al chiarire
rabbrividite
rumore di fondo
che risulta e non scalfisce.
Ma la radice dei nomi t’incroci,
la tenebra, il deserto –
ascolto inaudito e persino
flagello che una volta per sempre
arpiona le tempie.
Chiostro ti sia ove tu speri
fino al profano, al contaminato
fino alla ghiaccia che accarna
e clemente recide. Qui
ti rinnega, qui ti sovvegna,
qui ancor che impura
per verba si tradisca la pupilla.
Soltanto una parola è arrischio
e paradosso del sopravveniente,
a te il cenacolo
il chiuso che dismembra
il presofferto
———implacabile
———————silenzio.

 

La pioggia si dispiega verso l’alba
sopra i fossi e i rancori impudenti
degli ubriachi, nella sarchiatura
dei campi dove la ghiandaia
si affretta al volo e il neon
occhieggia dalla pensilina.
Simile a corteccia il distruttore
nell’ora insonne dei nostri tremori,
e noi a chiederci come sia possibile
vivere nel futuro e i nostri sensi
trascinare sul fondo. Anima curva,
le brevi nevicate e lo scontento
avanzano, lungo il meridiano
si spandono parole ed è catarsi
mendicare la fumante bragia. Addio.

 

Lo spazio tra di noi che si consuma
nuovamente ci lusinga esortando
da lontano le primizie
del frastaglio e della mutazione.
L’invido giorno si sfalda sui canali
senza tregua né raccoglimento,
il meriggio ha volubili sentori,
il pane è poco, la profezia strana.
Come a sferza improvvisa il portone
oscilla e lo spiraglio
quasi svela recondite parvenze,
finché aggotta la domanda
spicciando il dardo dell’acetilene.
Se l’agire è patimento
già si avverte la disperazione
del messaggero,
già la macina travolge
la schiera che s’imbuca.
Una botola o il vortice di un gorgo
è tutto ciò che infine trasalisce.
Il fiume scorre, sulla opposta spiaggia
lo spettatore addita l’orizzonte.