Roberto Carifi è nato nel 1948 a Pistoia, dove risiede. Le sue raccolte di poesia: Infanzia (Società di Poesia, 1984), L’obbedienza (Crocetti, 1986), Occidente (Crocetti, 1990), Amore e destino (Crocetti, 1993), Poesie (I Quaderni del Battello Ebbro, 1993), Casa nell’ombra (Almanacco Mondadori, 1993), Il Figlio (Jaka Book, 1985), Amore d’autunno (Guanda, 1998), Europa (Jaka Book, 1999), La domanda di Masao (Jaca Book, 2003), Frammenti per una madre (Le Lettere, 2007), Nel ferro dei balocchi 1983-2000 (Crocetti, 2008), Madre (Le Lettere, 2014), Il Segreto (Le Lettere, 2015). Tra i saggi: Il gesto di Callicle (Società di Poesia, 1982), Il segreto e il dono (EGEA, 1994), Le parole del pensiero (Le Lettere, 1995), Il male e la luce (I Quaderni del Battello Ebbro, 1997), L’essere e l’abbandono (Il Ramo d’Oro, 1997), Nomi del Novecento (Le Lettere, 2000), Nome di donna (Raffaelli, 2010), Tibet (Le Lettere, 2011), Compassione (Le Lettere, 2012). È inoltre autore di racconti: Victor e la bestia (Via del Vento edizioni, 1996), Lettera sugli angeli e altri racconti (Via del Vento edizioni, 2001), Destini (Libreria dell’Orso, 2002); e traduttore, tra l’altro, di Rilke, Trakl, Hesse, Bataille, Flaubert, Racine, Simone Weil, Prévert, Rousseau, Bernardin de Saint-Pierre.

https://it.wikipedia.org/wiki/Roberto_Carifi

 

POESIE

da OCCIDENTE

A occidente
A occidente affondano le navi. Quando?
E’ giusta la voce che racconta il nulla?
scintillano, a volte, ma non è sole
piuttosto un fuoco, un fuocherello acceso nella notte.
Accade a occidente, soltanto a occidente
se danno l’ordine le mani
e comanda il gesto spaventoso.
E’ ora di scendere, degradare laggiù,
verso le nebbie, arrancare se occorre
come morti che cercano l’uscita;
questi sono gli ordini, poi basta.
E’ neve la donna che saluta i marinai,
si scioglierà dietro l’angolo,
si annullerà in segreto,
quando si accende la brace dei ricordi
a occidente è perduto chi non salpa.

Sarà un anno, o due, che hanno portato la notizia.
Uno afferrò il tuo braccio, un altro la mia mano,
insieme afferrammo il legno della morte,
insieme facemmo un fuoco nel giardino
illuminammo tutto, tutto fino al buio.
Sarà un anno,o due, che una voce ci disse è stato,
che un’altra ci disse è primavera,
che una mano ci mostrò la sera
dove respirano le ombre.
Non so da quanto una lacrima entrò nelle parole
e imparammo a scrivere a singhiozzi.

Cenere e sangue. Due parole.
Una per dire la foglia secca, sbriciolata,
l’altra perchè il tuo sangue scorra nelle mie vene,
sorella desolata.

da IL FIGLIO

Inverno
Una lampada, tra noi, una lanterna fredda
febbraio oppure capodanno, tesse qualcosa la tua mano
o forse disfa, rovina qualcosa la tua mano
e tesse. Ch filo, che filo di lana,
che pianto porta la tramontana.
Chi tesse, chi disfa con la sua mano,
qualcuno tiene la lampada,
il sangue dorato della lucerna,
qualcuno è andato e c’è chi torna
con un buio mortale sulla bocca.
Una lampada, tra noi, una lanterna fredda,
narra qualcosa la parola, qualcosa che si consuma.
Chi porta questa parola consumata,
chi parla, chi parla in questa lingua arata.

Quando per te decide il desolato
è giallo questo mattino
restano i tuoi capelli a indicare
perchè qualcuno indossi il tuo vestito
stringa le mani, le accarezzi,
uno inatteso più della morte
quando si arrischia la porta di casa
verso i tralicci coperti di neve
e stanno sospesi nel più desolato
il pane e la brocca,
incontro a un vecchio con le tue iniziali
se la più disadorna delle notti
è la tua cena.

Città vecchia
La mano di una donna nei vicoli del porto,
i marinai che vanno via di notte
chiamati da un oceano mortale
sto con le cagne e i contagiati
non so più nulla di chi amo
ma sento un pianto a occidente
quando la luce è inseparabile
dagli occhi dei morenti
e illumina la soglia dell’attesa,
la stanza è rischiarata dai lumi della fine
e cercano riparo dentro un cono d’ombra
quelli che inceneriscono la vita,
che baciano carni uscite dalla febbre,
mostrami la salvezza o la rovina
chiedo allo sconosciuto che non dura,
rasenta i muri della città vecchia
vestito di stracci e di sconcezza…
non sai che siamo scintille di miseria,
non sai chi mi ha mandato?

La luce declina ma durano le cose
trascorro gli anni vicino al lume
perché un angelo ama le luci basse
e va dagli esiliati
è scritta, dice, sopra un lenzuolo sporco
la pena da scontare,
l’ora già dichiarata
prima che venga un legno a benedire
e ti perdoni una testa pendente
un’ombra incoronata
se amerai sotto le rosse mura,
dice l’angelo e la luce
è una coperta bianca sl mio letto.

D’inverno entra nelle case
una segreta minaccia,
una manciata di gelo nelle stanze.
Il vino e il pane sulla tavola,
sulla tovaglia un’ombra,
nella luce fioca cresce l’attesa
che dilania.
Fuori la neve calpestata
non sai se dal fuggiasco,
il viandante braccato dal destino
o l’Angelo che torna
con la salvezza in pugno.

da AMORE D’AUTUNNO

Esatta è la parola
che viene a noi dal bene,
che afferra come la mano del destino
e piega le ginocchia
e l’uno all’altra ci abbandona.
Se resta un’ombra, amore,
non sarà l’ombra del peccato
ma quella che protegge dalla luce estrema,
che custodisce lo sguardo di chi ama.
A volte il tuo viso muta,
un fragile tremore bacia le tue labbra:
soltanto il bene si mostra così,
nella minuscola piega della pelle,
nel battito sottile dello sguardo.
Il male non ha rossori,
nulla lo lascia impallidire
e si nasconde.

In questa notte nuda di parole
come un angelo cancelli il mio dolore
nella grazia tremante del tuo sguardo.
Anche se questo esilio mi apparterrà per sempre
la tua dolcezza è un’anima,
un lampo acceso nel destino,
una carezza deposta nel mio cuore
più forte del vento solitario
che vi respira dentro.
Lo so che un’ombra ci separa,
che questa luce è fragile
come certi lucignoli che scuote
la brezza leggera d’autunno,
ma il tuo sorriso forse l’ha scritto Dio
nel mio destino.

Ora ti parlo, assente, come se fossi qui
nella luce che bacia questo foglio,
angelo che non avevi un nome,
che forse indovinavo in certe primavere,
che già sentivo in fondo al cuore
quando Dio mi accarezzava nella notte,
tu che non concoscevo, di cui sapevo l’esistenza
da quella mano misteriosa
che mi mostrò la gioia più grande
custodita nel dolore,
tu che mi doni in un fragile sorriso
la vertigine
che solamente danno la bellezza e il bene
lascia che ti chiami amore
semplicemenete, così, come colui che prega
chiama amore Dio
e lo ama di più perchè assente.

Chi piange, campana, nel lento rintocco,
che cielo tramonta sul tuo campanile,
il rosso è di sangue
o così si colora l’amore morente?
Tu sola conosci, campana, il canto dolente
che l’angelo intona
quando di sera abbandona chi ama
all’abbraccio del nulla,
ma dimmi se l’angelo piange
nel lento rintocco
oppure è soltanto il mio cuore
che piano si spegne.

Ti prego, campana, non dirmi le ore
del mio solitario abbandono
quando l’inverno declina
a un sole lucente di morte.
Non dirmi dell’angelo il viso
perduto nel tempo di un altro,
ora che un sole vorrebbe fiorire
e muta si spegne la vita
nell’ultimo raggio.

Passasti con quella luce in pugno,
dissi: “Non so, so molto poco dell’amore.
Giù c’è un abisso, lo conosco bene”.
Tu mi prendesti per la giacca,
metà del mio viso era già ombra.
Abbiamo corso, volato qualche volta.
Di certo ci sono foglie secche,
qualcuno le calpesta,
stridono in fondo al cuore.
Di certo la stanza è un rettangolo d’angoscia
e il buio completa la sua opera.
Ogni tanto sprofondo nel cappotto,
accelero il passo come fossi atteso.
Più spesso una voce mi precede. Sono in ritardo,
penso, hanno già chiamato!
Allora vorrei che mi afferrassi per il bavero,
che mi tirassi via, dove c’è luce.

Novembre
dove una mano stringe le altalene
e uno sguardo si nasconde
e spia la nostra gioia
di poche ore
quando gettiamo una promessa
nel destino
che accarezza la fronte
e ci disperde
tra le ombre nude d’autunno.

Eppure, amore, corri come un bambino
e lasci il tuo sorriso nell’azzurro,
corre nel filo la tua voce
e accarezza gli angeli malati,
i libri dove imparavo
la cenere del tempo.
Lontano alberi sottili, un’ombra scheletrita
che aprile dona a questo sguardo
di povera anima caduta
tra soffitte di bambole e trenini.
Dentro mi resta un soldatino,
un ussaro di stagno
che mi addormenta sul cuscino.

Lo sai, amore, che mi congedo in fretta,
che tocco terra con troppa leggerezza,
che ho un destino nelle tasche vuote
e un angelo spoglio che di sera
mi piange livido sul petto.
E passo sotto le mura di novembre
con un messaggio da portare
non so né a chi né dove,
scritto a singhiozzi come una preghiera,
e vo quasi fratello nella notte
guardando ombre sorvegliate,
certi lumini accesi
e l’occhio spento di anime perdute.

Amo quelle madonne consumate,
le creature perse in un esilio,
talvolta a un angolo di strada
mi rattrappisce un’ombra sconosciuta.
Salve, le dico, sorella mia nel gelo!
E vado, e vado
con un tremore antico nella penna,
con un singhiozzo stretto nella mano
e so che un brivido di neve
mi bacerà la fronte.

Notte, nella quale ti vidi giacere
quando l’estate devastò il suo mare,
quando nel sasso ti dettero un nome
e calò su di te il mio lenzuolo
tessuto di pianto,
quando il tuo occhio patì per il mio
e verso di noi avanzò
uno stormo di ore cadute,
quando appesero il pendolo che separa
e un uccello rapace beccò fino al cuore.

La luce, di notte, contiene il tuo povero scialle,
le fragili guance colpite,
domando di te alla penombra
risponde un cammimo baciato di sangue.
Chi mai ti depone nel palmo del più devastato,
chi mai ti abbandona allo sguardo
del primo esiliato?
Domando di te al muto animale,
nell’occhio gli gronda l’estrema stagione,
risponde un uccello di neve
e si scioglie in un brivido il canto.
Chi mai ti racconta di me,
chi mai ti rammenta il mio nome
nel regno dei non più nominati?

da EUROPA

Ma tu, l’Europa,
tramonti con gelido sguardo
sei carne e macello
ragazzi ti bruciano in petto
si amano per quanto stranieri
sei terra lasciata morire
nel gorgo dell’acqua
ti piangono addosso
capelli di cenere
sei anima senza ritorno
nell’occhio scagliato contro la terra
il tuo sole si spegne
nella bocca ferita delle tue sentinelle
nel gravido sonno
della cagna guardiana.

Dormono con occhi nella palude i morti.
Uno promette amore,
dispone la bocca al bacio,
si avventa su di te.
Un altro chiede di te,
nel cavo dell’occhio legge il tuo destino.
Dormono, nel tuo letto di foglie, i morti.
Uno prepara la mano alla carezza,
il tuo viso si scioglie nel palmo della mano.
Un altro abbandona il tuo giaciglio,
promette una voce alle tue labbra.
Dormono, i morti, nel tuo cuore.

Per quale cammino ti credettero pronta?
a quale dimora ti destinò il guardiano?
Decise la mano che ti abbassò le palpebre,
l’altra che ti vestì a festa,
che avresti incontrato altre madri,
diviso con loro l’attesa.
Chissà se vedesti il mio candelabro
acceso di notte in un lume di pianto,
la veglia che mi portò fino a te,
a metà del cammino.
Tra verande sbiancate dal sole
l’anello ti afferrò le dita
il giorno che ti vollero sposa
e la bestia ringhiò
nelle braci del mio candelaro.

Il giorno che ti spensero gli occhi
e domandammo pane allo straniero
e tu guardasti verso il nulla,
il pugno stretto nelle mani,
il giorno che brancolò nel buio
l’ultimo infermo
fino al tuo cuore
con l’anello che fu per sempre mio,
il giorno che mi dicesti
ecco l’anello che fa vivere i morti
e venni morto al tuo giaciglio.

Abbiate questo gelo,
queste mani abbandonate al verme
che confonde il tempo,
del Qui non resta che un timbro soffocato,
l’Ora singhiozzeranno in pochi,
c’è una marmaglia cieca
che geme nel mio sonno
abbiate questa barca rotta
che remano i miei giorni.

Promisi alla gelida sorella
la fedeltà degli invisibili,
misi dei fiori alla finestra
per festeggiare il nulla,
tu mi parlavi di notte
in un petalo di rosa,
parlavi al cuore
che batteva a stento
mi mostravi una luce
nemica del giorno,
sulla tua pietra disegnai un occhio
in cerca del mio
alla finestra un sopracciglio
l’innamorato ricciolo dei morti.

Ti abbandonai nell’occhio
che logora la fiamma
e ti promisi, madre, il mio respiro
quando la cera dei tuoi giorni
qualcuno sciolse goccia a goccia
mi dichiarò perduto un Indicibile
quando misero fiori alla finestra
perché nulla fiorisse altrove
e dal silenzio si mossero i guardiani
incespicando labbra nella pietra,
le nude stelle dell’addio
radunò in un rantolo la bocca.