Renzo Cremona è nato nel 1971 a Chioggia, dove vive. Traduttore di testi letterari dal cinese classico e moderno, dal neogreco, dal portoghese e dall’afrikaans, è autore di haiku innovativi e sperimentali in lingua italiana e latina. Ha pubblicato: Foreste sensoriali (1993); Lettere dal mattatoio (2002, Premio Campagnola); La pergamena delle mutazioni (2002, Premio Guido Gozzano); Cronache dal centro della notte (2004, Premio Città di Pompei); Tutti senza nome (2006, Premio Gesualdo Bufalino); la silloge bilingue in italiano e neogreco Sedici settimane | Dekaxi vdomades con Keti Màraka (2007, Premio Surrentinum); Piscine (2007); Il canone del tè (2007, Premio Erice Anteka; 2a ed. ampliata 2013); Plays (2007); la raccolta bilingue in italiano e neogreco Suites con Keti Màraka (2008, Premio Peter Russell); Oz (2008); Tundra (2009); Dei vizi e delle virtù (2010, Premio Cinque Terre – Sirio Guerrieri); Neve (2011); Cartoline da Trapani (2013, Premio Marchesato di Ceva). Sue opere sono comparse su riviste nazionali e internazionali e in rete in formato digitale.

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POESIE

da LETTERE DAL MATTATOIO

posta.
perché nulla andasse perso,
perché i giorni non corrodessero la memoria
ho mangiato le tue parole
e le ho fatte scendere al buio.

dove il tuo inchiostro
è diventato il mio sangue.

*
bisanzio.
in uno stato di deliri
per nulla apparente
mi alzo
la notte
in cerca della memoria
che si sta perdendo.
e la sento,
è un’eco che perde forza
mano a mano che percorro le pareti
e disincaglio le dita
dalle ragnatele dei ricordi,
mentre scruto carte
e diari di bordo
per trovare una rotta qualsiasi
in una geografia appannata.

quasi sempre è un corridoio,
e succede di vedere
la luce di un televisore
acceso altrove
che illumina immagini
di qualcosa che io
non sono più,
in una stanza
che non riesco a raggiungere,
per quanto continui a camminare,
dove si pronunciano parole
che io
non conosco.

*
manicomio.
cercando una strada
trovò quella
che portava
dentro di sé.

venne un giorno
e non riuscì più
a tornare.

da LA PERGAMENA DELLE MUTAZIONI

poeti.
radici eravamo che attingevano luminose
alle vene della terra,
fertili campi su cui la balbuzie diventava
sublime alfabeto.

eppure

parole ci furono cucite alla bocca
perché meglio brillasse
di un fulgore spento.
così ora le nostre labbra rabberciate
sono altari di silenzio,
intime urla
di un fiore
attorto allo stupore.

*
rituali.
hai labbra confinanti con la mia sete
e per bocca
un enigma
circoscritto da boschi selvatici.

vivendoti accanto
radici mi sono cresciute sotto i talloni
che ora abbracciano le tue
e ho come la sensazione
di sentire pronunciare il tuo sangue
nelle mie vene.

e questo

è quello che accade
quando sollevo il sudario
per vedere il tuo volto,
il momento in cui inciampo
nella coltre di nebbia
al di là dei sogni
in cui sono ricamati
i miei occhi
smarriti.

*
del rosmarino hai l’odore,
e sulle labbra
porti racconti
di ciliegie selvatiche
e di amarene.

è un lungo filare di viti la notte
ed ogni ora è una vendemmia
in cui i miei piedi
affondano nel tuo petto
e io
pigio il tuo corpo.
*
se il tuo corpo riesco ad impararlo
a memoria,
mi chiedi?

hai una lettera che tengo tra i denti
ed una
che mordo coi piedi:

in mezzo sto io
e ti recito a memoria.

tutto il mio corpo
in un colpo
ripete il tuo nome.

*
quando in sogno ci incontrammo dopo la caduta di bisanzio
notai che avevi già capelli
che non ricordavo più:
parlavi in un alfabeto irto di spine
e la barbarie del silenzio
ti aveva annebbiato gli occhi.

vecchie fotografie ingiallite
devono avermi costretto a dimenticare,
mi sono state insegnate le vertigini
e i giorni vengono trasformandosi
mano a mano che me ne allontano:
hanno ciascuno forma di uccelli notturni
con un ricordo nel becco
a rinfocolare l’ombra.

e se i miei piedi s’inoltrano nei boschi
qualche volta aggiusto le frequenze
e riprendo la tua stazione:
mi sembra una radio
che parli una lingua straniera.
lo so, le mani che hai
non servono più a scrivere il mio nome
e io da lungo tempo
ho scelto di essere analfabeta.

ma ci sono giorni in cui
pergamene si srotolano
nel buio della tua cattedrale
che hanno il palpito di parole dimenticate
e le mie labbra ammutoliscono
avvolte nel mistero
in cui bruciarono
un giorno
sulla soglia impronunciabile
delle nostre vene.

*
cassandra.
dicono che il miglior modo per non essere creduti sia
raccontare la verità.
ho provato a spiegare che il corridoio
che abbiamo imboccato
finisce su scale senza gradini,
ma non mi ha creduto nessuno.

così ho cominciato a dire le menzogne più cupe,
le assurdità più ridicole,
mi sono messa ad inventare
disgrazie inverosimili, così,
per gioco.
tanto valeva delirare fino all’estremo, a questo punto,
e ho detto che il carro del sole
non sarebbe più sorto.

come sempre accade
non fui creduta.

questa volta a ragione, però:
avevo inventato tutto.

ma c’è una cosa che mi getta nel dubbio: che oggi
tutti hanno preso a camminare
chini sul marciapiede e arrancando
cercano di indovinarne i confini.
dovunque
si accendono lampioni in pieno giorno,
si bloccano gli ascensori,
si guardano gli orologi:

sono ormai anni che è notte.

*
Aruspice (2004)
aruspice mi chiamano e sono colui che decifra.
sono per me strade le vene e il sangue è lingua,
la materia sintassi che pulsa
e i nervi predicati oscuri che illuminano la notte.

qui io sono cresciuto, tra le zolle del confine,
i miei giorni sono il solco dell’aratro e le mie
mani un vomere che scortica le sillabe.
qui, dunque, ho piantato le mie radici, qui vivo.

è un terreno il cielo che indago su cui
la mia mente alligna in forme di fiori
stellati che sono la bocca attraverso cui
parla e ammonisce dentro la notte di fuori.

padroni di buoi portano al macello spinti avanti
su campi bianchi, uomini che un bianco aratro
trassero e neri semi seminarono: ecco le piante divelte.

le viscere sono parole, mutevoli calligrafie
gli uccelli, le folgori vertigini di rampicanti.
è dalla notte che a fiotti prorompe il giorno.

mi chiamarono per affondare la mano perché dicessi,
ad allargare il palmo perché toccassi il mormorio
melmoso delle parole che nelle profondità si nascondono.

ecco lo squarcio, dunque, ecco
lo straripamento del buio.

si dia inizio alla decifrazione, allora, si proceda.
si scenda nella notte della sintassi, dove i globuli
sono sillabe e verbo il fluire del sangue:
siano il corpo un’entrata e le viscere i gradini.

da TUTTI SENZA NOME

la vita che conosciamo
la vita che conosciamo
è solita spiegarsi
solo d’inverno,
quando sembra un’impronta
sulla superficie
e il lago è gelato.

talvolta capita, però,
che in alcuni punti
il ghiaccio sia più sottile che altrove.

e d’improvviso capiamo
che la verità sta sul fondo.

da SEDICI SETTIMANE

XXI
diverse sono le forme
di pioggia che conosciamo.

c’è la pioggia principale,
che scende a dirotto
nella sintassi del giorno,
intransitiva e indifferente
agli ombrelli.

c’è poi quella che cade obliqua,
per cui a poco servono le protezioni,
sempre subordinata
e sempre congiuntiva,

una pioggia che non indica
ma suppone.

e c’è quella che bagna le mani
con cui ti accarezzerò.

poi ci sei tu:
pioggia che si ascolta distesi a letto,
l’uno tra le braccia dell’altro:

modo infinito
tempo presente.

da PISCINE

LXXVI
piscine vuote.
i giorni inventano
enigmi in silenzio.

XVI
ima in piscina.
nec quisquam scit quid altis
in verbis fiat.

LXIX
fondale azzurro.
sintesi e ipotenuse
nell’oltremondo.

LXXIII
profondo indaco.
corpi turchesi vanno
e vengono laggiù.

LXXIV
corpora nantium
imis in lineis mundi
refulgescentia.

da OZ

XLII
muti i giorni
ordiscono silenzi
attorno a noi.

LV
neve al telefono.
i silenzi immensi
tra le parole.

LXVII
città lunari
si alfabetificano.
torri aguzze.

LXXI
alibi tarde
memoriae in angulis
disiunctae pupae.

LXXVII
ramificati
acrobati del buio
i calendari.

LXXXV
fili sospesi.
bibliotecari annottati
in stanze vuote.

da TUNDRA

XXXIII
neve e silenzio.
le tundre scintillanti
di muschi algebrici.

XXXVII
affioramenti.
città alfabetiche
dopo il tramonto.

XLI
inveterascunt
verba inter oppida
omnia niventia.

XLIII
sciami elettrici.
desinenze vanno nel
reame del buio.

LXXIII
nevica il tempo.
crinali di ruggine
le abitudini.

LXXXIV
il tarlo del tempo
in fondo alle nevi
acquartierato.

TRANSLATIONS

from MYSTERY PLAY, A ONE-ACT WORK FOR MYSTERIES AND WORDS

V
the life we know
can usually be explained only in winter,
when it looks like a footprint on the surface
and the lake is frozen over.

there are times, though,
when the ice is thinner in some spots
than elsewhere.

and suddenly we realize
that truth lies
on the bottom.

X
a thought slipped into the night that lived in him
and unstitched the fabric of his memory.

that is how time inside him
could no more be buttoned up.

XIII
while still reeling in a state of delirium
i get up, at night,
in search of memory
which is gradually losing ground.

and i hear it,
it is an echo growing dimmer and confused
as i move along the walls
and refloat my fingers
off the webs of recollections,
while i scan papers and ship’s logs minutely
to find a route in a steamed up geography.

most of the times it is a corridor,
and there’s a light coming from a tv on,
somewhere else,
illuminating images of something
that i am not any more,
in a room i can’t reach,
no matter how much i keep walking,
where words are uttered
that i do not know.

XIV
plants take root in the memory,
slowly but steadily,
and grow.
‘til they find themselves
with their hands sunk into the night.

it is the negative of day
the one ending up
on our eyelids.

and the children
keep on playing hopscotch,
outside,
on the edge of the ravine.

from MIRACLE PLAY, A ONE-ACT WORK FOR ENCHANTMENTS AND LIGHTS

XI
he spends the nights stitching and unstitching,
sewing in and unsewing patches,
that’s what constantine mac fix does,
a restless dealer obsessed by tailoring,
convinced as he is
that the life we wear
is like a suit or a dress
of the wrong size
which is either too tight or too loose,
something that only time, creases,
seams and cutting
will be able to make fit
what we really are.
only cutting, we said,
and a lot of mending, we should add,
and much more darning, tearing and ripping.