Piero Bigongiari è nato a Navacchio nel 1914. Laureatosi nel 1936 presso l’Università di Firenze con una tesi su Leopardi discussa con Attilio Momigliano, ha insegnato storia della letteratura italiana moderna e contemporanea ed è entrato presto a far parte del gruppo degli ermetici fiorentini come Mario Luzi e Oreste Macrì. Ha collaborato a numerose riviste tra cui Campo di Marte e Letteratura. È morto a Firenze nel 1997. Le sue opere principali: La figlia di Babilonia (poesie, 1942), Studi (saggi, 1946), L’elaborazione della lirica leopardiana (saggio, 1947), Rogo (poesie, 1952), Il senso della lirica italiana e altri studi (saggi, 1952), Testimone in Grecia (in collaborazione con G. B. Angioletti, prose, 1954), Il corvo bianco (poesie, 1955), Le mura di Pistoia 1955-1958 (poesie, 1958), Vento d’ottobre (traduzioni, 1961), Leopardi (saggio, 1962), Dove finiscono le tracce 1984-1996 (poesie, 1996).

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POESIE

Vetrata
O memoria, la terra è il tuo ritorno
negli occhi, le magnolie
in un torno di gridi dai cortili
traboccano, sui lividi ginocchi
spunta l’età più grande come un’alba.
Una febbre rimuove dagli stipiti
la madre dolcemente: là trasporta
simile a luce le vele dal porto:
afosa muove sulle braccia a chi
non scorda. Mentre un lampo rosa inonda
la finestra, l’attesa: una tempesta
di caldo, un bacio che fa vana ressa.
E i cani spenti di una festa delirano
di viola se grappoli di nulla
pendono già a un oriente.

Sulle cale gelate di piazza Mentana
Era forse la vita, la scalfiva
la mano blanda che la misurava,
era rimasta l’ultima creatura,
col turbante di pelo, laminata
dalla luna, a guardare sfigurata
dal muretto la luce moritura…

A labbra serrate
Un’ombra ancora, un’ombra che non scompare
come un disco pieno di propositi,
e questo cielo senza vittoria per nessuno,
le mani calde, la bocca amara d’amare.

Inutile parlarvi, miei morti sconosciuti,
inutile cercarvi, voi uomini della terra,
per la troppa terra che nasconde il vostro cielo,
solo vostro è il cielo per cui soffriamo tutta la terra.

Tutta la terra e gli errori penosi perché piccoli,
le stragi come muri d’argilla a ridosso dei quali ci ripariamo,
con un fazzoletto scarlatto asciughiamo il sangue per non vederlo
con uno bianco le lacrime per non piangere.

Con un passo più lungo commettiamo la stanchezza, a che cosa?,
la rosa in un vortice repentino scopre la primavera in un deserto
e le stagioni si salvano dai cannoni ma non dagli sguardi degli uomini
che forse esistono sulla terra per uno scompenso di menzogne
come il vento in un dislivello barometrico.
Asciughiamo le lacrime anche con le parole,
con la fucileria più fitta, con gli amici che salgono le scale.
E inventiamo d’andare a letto, per inventare qualcosa,

mentre sentiamo che la vita divarica dalla morte
veramente, non c’è dubbio, ma siamo stanchi lo stesso,
come quando stanchi della musica ascoltiamo solo gli strumenti.
15 aprile ‘44

Non so
Nell’umido brillare dei tetti,
nel calare del sole tra scogliere
di strade, non so cos’altro aspetti,
s’altro dichiari con parole rade
ai passanti, ai vetri ciechi del tram,
e a un tratto molto so della speranza,
ma non so neppure cosa si perde
nell’ansimo dell’aria, quasi un battito
accelerato di motore,
quasi tacchi più fitti, una catena
che si tende, gli occhi un poco più desti.

Ma lo sguardo è dentro le cose
a cercarvi la buccia tra la polpa,
e non v’è colpa sufficiente per la nostra gioia,
nemmeno la speranza e la solitudine:
tu sai che non so, tu sai che puoi chiedere.
26 novembre ‘45

Inno primo
Se è durare o insistere, non oso,
le miche ancora splendono, o s’oscurano,
i paesi ritornano visioni,
il falco che ha predato a lungo i cieli
su un abbaglio di messi, di deserti,
di vetri dietro cui spiano fanciulli,
è morto sulla strada impolverata.

Nella memoria quello che d’eterno
s’intorbida o si schiara, non tentarlo:
segui le tracce lievi, le più rare,
il fil di fumo, l’allegria di un merlo;
non puoi tenerlo, e pure ti sostiene,
l’abisso disperato per cui speri,
e se è un vuoto lo ieri, un vuoto quello
che al tuo occhio s’illumina, ma, vedi,
fiorisce, si diffonde, cretta i massi
più densi, si dirama, esplode, è quello
che diroccia il futuro e ti fa strada:
le valli si riempiono del suono
delle valanghe, si ripete il tuono
di giogo in giogo, è il fulmine che lapida.

Dove passasti ritornare è come
non più pensare d’essere, ma esistere:
ritrovare la strada, il vento torbido
della mattina che ritorna luce,
la rada gioia che infittisce se altra
gioia vi mesci, fine lieve gioia
d’un amore deciso, raccapriccio
d’un amore reciso: tutto, vedi,
ti abitua a distaccarti un po’ per volta
dal crudo magma che t’involge e soffoca.

Nella memoria è un che d’eterno, cedilo
cedilo alla memoria se rivedi
l’orto tornato al sole, se le labbra
ancora tormentarle riodi amore,
abbandónati a questo inconsistente
pulviscolo di cose e di pensieri,
abítuati all’inferno dell’effimero:
ieri è già eterno se altro tempo cade
dal suo cielo e vi porta visi, cose
fuggiasche nella loro lenta traccia;
questa la loro libertà: seguire
lievi il declino, dirizzarsi dentro
la loro gravità che le raccoglie
e le figge quaggiù dentro la ghiaccia
senza un grido; ma è un cielo che si semina
e si rapprende qua dove la brina
non regge, dove migrano le nuvole,
sui campi in cui la neve già s’incrina.
E già il tempo scolpisce fitto e lieve
il suo passato, l’impeto suo incupa
le forre, arrossa le orbite stellari,
strappa dai casolari qualche squilla,
e le erme se hanno un volto, è un volto ambiguo:
non volgerti di qua, la strada è quella
dove io non sono, dove tu non sei,
dove parla più arguto il vento esiguo.
13 – 22 febbraio ‘53

Il corvo bianco
Un’illusione verde giù dal nero
dei graticci si espande, su dal nero
rugoso: gravità dell’illusione
senza centro nel sole, primavera,
mia primavera ultima, mia prima,
tornata tra gli spini della terra
a strisciare tra i dumi e le ombre forti
dei candori nevati: i prati attendono
il bramito dei cervi, il polverio
fresco del bosco entro cui batte il picchio
frenetico ed il vento par di brina.
Aprite, stelle, l’occhio nella notte
del cuore, rivelatevi, illusioni,
lasciate il ramo, scendete scendete
a terra ancora verdi, non col secco
sgrigliolio rosseggiante dell’autunno.
Il corvo bianco beccherà tra l’erba
d’una eterna stagione: sarà un fiocco
di neve mossa dall’alto dei cieli.
Batte il martello sulle assi schiodate.
12 maggio ‘54

Risalendo con Mario la valle dell’Orsigna
Le felci hanno un odore di bruciato
al controfuoco intenso di questo cielo opaco.
Se qua strusci la mano sulle prode
dove le groppe antidiluviane
finiscono in sussulti di acquattarsi
tra menta e ruta, ne accendi il profumo.
Risale il viottolo l’Orsigna
ma non toccare le forme delle rupi
friabili che le radici tengono
come liane, costrette – al vento pendule
che porta prima che all’occhio lo scroscio
d’una gelida vena dentro un botro.
Verdissimo, quasi marcio ripete
il pendio diboscato che a terrazze
sale verso la casa abbandonata
lassù in alto; ma non più in alto.
Non dà farina all’ostia del silenzio
la ruota ferma (anche quassù è domenica),
poco più oltre vi banchetta il corvo
dove il ponte lunghissimo traversa
la sassaia percorsa da più rivi
che s’ignorano limpidi tra loro:
vi solleva le pietre da una lama
d’acqua il pescatore, a piedi nudi,
di pesci addormentati nelle loro
oscure lamine. Áltera le cime
che chiudono la valle ignoto il senso
che Dio non è qui: non lo cercare.
26 agosto ‘57

Torre di Arnolfo
È vero questo scendere del fiume
è vera l’acqua, la mota, la luce
immota sul perpetuo suo sottrarsi
come nell’illusione, orma, un pensiero.
Dove ti appoggi, più non trovi uguale
alla carezza l’impeto, all’ardore
la fiamma: e nel crollare dei tizzoni
è larva che consegna a verità
l’antico sforzo ed il futuro, l’essere
che è al non essere che non è:
che non è uguale, ma che è uguale.
E v’è patto tra questa andante tenebra
nella luce e il ritornare tenebra
della luce: così l’ondata a riva
trova fermezza al suo rancore.

Chi ha gridato non ha gridato invano
ed il sangue versato, cancellato
dalla ruota che tritura del tempo,
attende in vasi colmi nei cellieri
vietati all’uomo ma che l’uomo tenta
di aprire – ladro o vindice, no sa –
giustizia.

Per giustizia sono morti
i vivi che credevano di pensare
– non si vive se non pensando, ha detto
chi ha seguito il disegno nella trama –
ed avanzano in uno stesso tempo
incerto e consegnano a un morto che vive
parole, sangue, lacrime: il sapore
dell’illusione su cui troppo grava
– troppo vivo – il pensiero che leva orma
dietro orma tra l’uno e l’altro polo.
Se chi t’apre la porta è solo un morto.

Io qui ti attendo, solo in questa piazza,
risalgo il fiume, torno indietro, attendo
qui dove anche se non vieni sei:
sotto la mole di una torre che
leva od aggiunge, non so, al tempo le ore:
grigia vuole la luce febbrile della sera.
2 marzo ‘59

Sulla Clyde
Digrignava denti di ghiaia
il mare sulla baia della Clyde.

In questo video solare isole passano
silenziose, battelli, fumo: apparso
l’orizzonte marino, toccavi il tuo nord
allungandoti su te stessa
inquieta, incerta, non ti mormorava
il monitor che salse, incomprensibili
parole, il sole del nord confondeva
nel latteo orizzonte sfarfallanti
Piccola, Grande Cumbrae, Bute, il mare.

Sei al limite, non l’oltrepassare:
è l’amore che brontola segreto,
le parole sono bianche, lattiginose, visioni senza suono:
tu disperata ti attacchi al clacson, ma inutilmente.

Inutilmente la strada del nord è libera,
i laghi piovosi risplendono, i casolari
lasciano passare tra finestra e finestra
un lieve parallelo. Stai per toccare
– non toccarla – la tua visione senza suono, e,
ti prego, non dire che mi ami, le parole
bianche nella notte nordica non significano.
Appendi il tuo sorriso al fragile parallelo,
lascialo come un bucato sventolare nella penombra.
Non oltrepassare il visibile: assomiglialo.
estate ‘63

Al fondo delle immagini
La zona vicino a Dio è poco battuta,
qualche anatra nera, qualche sterpo, qualche bestemmia,
persino qualche sparo, e un gran silenzio.

Un gran silenzio, una luce falsa, un’aurora che non piglia,
un parapiglia improvviso come un vento di chissà dove,
muta l’atmosfera, un coniglio drizza le orecchie.

Ma io che non ti attendo e non ti cerco ti ho trovato
nella tasca del ladro appesa all’osteria
con poca refurtiva e un attaccapanni di ruggine.

Rugge il fuoco come un’acqua su un carico acceso all’improvviso
dove il gioco si fa attento, manca la carta ladra
cercata nella manica; ma il cerchio è nella squadra

e l’inimmaginabile al fondo delle immagini.
8 novembre ‘68

Col dito in terra
Le unghie crescono per additare qualcosa

al di là dell’indice e di qualsiasi indicazione
se le unghie seguitano a crescere anche ai morti,
le unghie crescono per grattare la notte dal giorno
ma anche per non lasciare nulla di intentato
sulla preda, se il giorno se n’è andato
con la sua spoglia e la morte ti è a lato
sorridente come l’angelo dal lungo passo
– ma sempre un po’ indietro – rispetto a Tobia.

Quale via più di questa impera col suo senso tra i morti
se il sorriso è rimasto tra i pruni – il nostro o quale? –
e i rovi sprizzano sangue a primavera…
Forse una traccia è rimasta di quel dio che ha scritto
in terra dinanzi all’adultera da non lapidare,
forse la pietra da non raccattare porta quella scritta
che nessuno ha letto, ma nessuno anche
ha raccattato quel sasso, l’ha scagliato.

A fianco di quella scrittura quale scrittura è da porsi,
i polsi quale stanchezza della traccia sentono come energia?
O mia diletta, la terra che tu calpesti è incancellabile,
ma perché nessuno si pone a leggere sulla pietra del silenzio
irraccattabile se non con un bacio che ancora pronuncia

quel silenzio che più non pesa, le lacrime che ti tolsi
dal cavo degli occhi sono pietre trasparenti – o forse

parole impronunciate – per aiutare quel Dio che ha scritto

e riscritto, verso il suo ultimo non senso.
27 marzo – 1° aprile ‘80