Patrizia Valduga è nata nel 1953 a Castelfranco Veneto. Vive a Milano. Ha pubblicato Medicamenta (Guanda, 1982), Medicamenta e altri medicamenta (Einaudi, 1989), Donna di dolori (Mondadori, 1991), Requiem (Marsílio, 1994), Corsia degli incurabili (Garzanti, 1996), Cento quartine e altre storie d’amore (Einaudi, 1997), Prima antologia (Einaudi, 1998), Quartine. Seconda centuria (Einaudi, 2001), Lezione d’amore (Einaudi, 2004), Il libro delle laudi (Einaudi, 2012). Ha tradotto John Donne, Molière, Crébillon fils, Mallarmé, Valéry, Shakespeare e Kantor.

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POESIE

da MEDICAMENTA

Qual mai sarà l’anno, il mese, qual giorno
e quanto dolce, ove per fine avermi,
ove odore di maschili epidermidi
più non curi, e sguardi, corpi dattorno,

lor secrezioní, escrezioni contermini,
con il sangue che ruota torno torno,
viaggi spermatici andata e ritorno
su ire rientrate, su affetti raffermi,

su l’eco scarsa di transiti umani…
(con tristi trame e quanto mai noiose).
Allora sogno d’un trascendimento

a fiaba o ad arte… in verità poi mento,
per la vita di visceri e mucose,
se ancora l’odorato invidio ai cani.

 

L’altra simulazione:
l’animo che non sa curare i sensi
o l’animo curare con i sensi.

 

In nome di Dio, aiutami! Ché tanto
amor non muta e muta mi trascino.
Ancora sete ho di te… soltanto
sola a te solo e col sole declino.

O marea d’amore viverti accanto
e arresto del cuore, amor mio divino,
che eterni della vita luce e canto.
La mia ne muore… dal ricordo sino

al qui ancora verso il cuore in cammino,
verso te, mio dissorte eppur destino…
se non di morte… ora di te rimpianto…

e il mare discolora il mio mattino.
Ma tu incatenami all’amato incanto,
resta, è giorno, vieni più vicino.

 

Vieni, entra e coglimi, saggiami provami…
comprimimi discioglimi tormentami…
infiammami programmami rinnovami.
Accelera… rallenta… disorientami.

Cuocimi bollimi addentami… covami.
Poi fondimi e confondimi… spaventami…
nuocimi, perdimi e trovami, giovami.
Scovami… ardimi bruciami arroventami.

Stringimi e allentami, calami e aumentami.
Domani, sgominami poi sgomentami…
dissociami divorami… comprovami.

Legami annegami e infine annientami.
Addormentami e ancora entra… riprovami.
Incoronami. Eternami. Inargentami.

 

Ulteriore finzione:
eternità, assenza
di fine, morte che muore, efficienza…

 

Di tutto ciò far senza,
e del troppo sognare…
E sulla terra in levità passare.

 

E nottetempo la gente si arrappa,
s’ingrifa, al serra serra si disgroppa.
Ah… eh… ah… bada ansimare… di tappa
in tappa svelta s’accoppia, s’aggroppa.

Ponte sui sensi, avendoli, s’acchiappa
con mutua trappola, greve s’intoppa
fino allo scoppio… gioca a stringichiappa
a strappa strappa e a cervello di stoppa

por toppa… E intanto la notte le scappa
da razionalità antidotata
e imperata… Io dolente, in gola un groppo,

il mio universo di assenze e la mappa
dei miei giorni ridesti mi sciroppo,
di pensamento in abuso incappata.

La stessa rigirata
d’angoscia in margine all’esiguo e al troppo:
il succo della notte invero allappa.

 

O marea d’amore
sul ramo di mare del cuore…
Ma invera o invanisce il cuore?

 

Ti voglio far provare il bel piacere.
Pur mal mio grado? Lasciami tranquilla!
Da troppe sere e troppe primavere…
Dei superni desiri ecco la squilla.

La luna scorre su acque nere e brilla…
Oh, tu vai alto per volermi avere!
Ed io ti prenderò come un’anguilla.
Dentro da me per vie d’acqua o vie aeree…

E perché più e più in te s’interni…
Entrerai mai e mai, primavere o inverni.
Dall’alto scenderò con giri alterni…

Pensatore di donne, mio amatore…
Fin ch’io ti prenda, fin che l’incaverni…
Ad averti c’è poco per il cuore.

 

Invecchio. Mentre il giorno qui s’attenda,
senza darsi dattorno, non atteso,
penso ai miei casi, il da farsi, le agenda,
pure a te, santoddio, beninteso.

Pioverà? Farà bel tempo? Che attenda
per uscire un segnale o ancora teso
mi comprenda male ritmo e vicenda?
Intanto, come tutti, mi soppeso

gli inviti del caso, poi l’ora chiusa…
Rilasso il ventre ch’è quasi mattina,
se non funzione pur sempre richiamo

all’arduo mio zampettio di gallina
su per Ia via alla vita, assai confusa,
chiocciante… Vieni fuori ora e finiamola!

 

In me cogli anni crescono, a mio merito
o demerito, quei danni d’ascrivere
interi a plurime carnali sterili
dilettazioni in cui involta o proclive
m’affatico… a diletti semiseri
e periferici.,. alle loro derive…
così che non mi viene dal preterito
il come e tanto meno il cosa vivere,
che in questi giorni persi neri e duri
se qualcosa mi resti non ho prove,
se qualcosa qui o altrove per me duri,
e non so se la sera ora congiuri
contro di me, o sui drudi miei dall’ovest
induri, sui passati e sui futuri.

 

Mi va di rievocare per mia cura
l’andar per prati… scongiurarlo, sai,
da l’avventura veniente e ventura
non chiedo come o da dove oggimai;

e non cascare più mella natura…
si tocca… su e giù… si finisce mai,
pensosa (se lo amavo, addirittura!)
di mie doglie, lagnanze lagne e lai.

Quali sforzi formali nella verde
vegetante lordura, flora a perdere
dove non si ficca… Ascolta! Ascolto:

ronzii, frullii su erbe, su merde…
cespi e sterpi… Alla stracca su nel folto,
su che 1’iddio creò. È mica molto.

Sa sedurre la carne la parola,
prepara il gesto, produce destini…
E martirio è il verso,
è emergenza di sangue che cola
e s’aggruma ai confini
del suo inverso sessuato, controverso.

A Paolo D.B.
Mi sto qui tutta fuori di me. O dio
dio d’amore, e di sorte, dove il senso…
nell’ultima fine, trama e tramenio
all’attimo strappato… dov’è il senso,

o da strappare all’insensato… o dio
dio nel cuore, e di morte, ecco il compenso
a quel che non s’è dato, allo stridio
dell’ora, o che s’è tolto, sorte a senso…

(nessun declino di luna là fuori…)
finire di morire al sole estivo
cieca, 1’ho veduto… e muta alleata

in brevi giorni attivo… vivo vivo,
col suo gioco di lombi e di colori,
fare della notte un’alba malata.

 

Solo diceva Torni? quando torni?
Fuori la notte rifranava, a brani
si sfaceva… Oh taci! … È tempo che torni
e mi baci… O murati mondi umani,
a credere che il di sempre raggiorni,
voi, lo schifo dei miei lombi!… Rimani,
amor mio, rimani… ancora diceva
che già la notte si ricomponeva.

 

Io per la voglia scoppio e mi sconsolo.
Oh se potessi scagliarmi al suo collo,
e non destarlo… o strascinarmi al suolo
e con lascivo assalto, anche il midollo
succhiargli… o con audaci mani a volo
provarne gli inguini… Avida controllo
che fa di lui la sua notte testarda,
la mia che come astuta, tarda e tarda.

 

Perché il tempo ora è venuto, viene
tempo per me che vanto vuoti niente
di dirti, e non parrà vero, Sta bene!
e di raschiarti via da cuore e mente,
di sviare il ricordo che mi tiene
la notte del volere nuovamente,
del Vieni fuori, dunque! se in un botto
mi assalisse la smania di star sotto.

 

E converrà che la notte mi amichi,
la notte che s’incrina coi suoi scricchi
e cigolii, coi suoi fruscii impudichi,
che attenda, e spii… e altri giorni conficchi,
e dei passati l’arruffo districhi…
Coi tuoi fantasmi vuoi che mi rannicchi?
sopra il tuo sesso?… io adesso, con mossa
di far altro, vado a rompergli le ossa.

 

Dormiva. Ps… ps… Cristo santo, senti
come cresce! … Si avvia un lungo toccare.
Cresce e non può aspettare… Poi lenti
baci e tenaci… e baciare a baciare
incìta… a meglio amarti, non lo senti?
non puoi lasciarlo fuori… poi in un mare
di umori, di sogni solari o chiusi,
avviticchiati, agglutinati, fusi.

 

O caro, non lo sai? viene la fine.
Per te io l’ho svegliata, per le vinte
tue reni viene… delle ore assassine,
dell’inventar vittorie… Dalle quinte
largirgli una sguardata… quale fine
sentiva… per catene nuove avvinte
alla sua carne… Ma della sua carne,
se è la fine, o caro, che farne?

da CENTO QUARTINE

<<La porta del piacere… eccola, è qui.>>
Quella del tuo, sicuramente, sí.
<<Chi ti apre il cervello ? dimmi, chi ?>>
Chi lo sa aprire… Piano… sí, cosí…

 

Baciami; dammi cento baci, e mille:
cento per ogni bacio che si estingue,
e mille da succhiare le tonsille,
da avere in bocca un’anima e due lingue.

 

Oh sí, accarezza dolcemente, sfiora,
ma minaccia ogni furia e ogni violenza;
lentamente… non dentro, non ancora…
portami a poco a poco all’incoscienza.

 

<<Maledetta, luttuosa fantasia
che esige un cuore mite e anche feroce…>>
Fingi di averlo e levamela via:
io voglio che mi avvolga la tua voce.

 

Tu, misterioso spirito gentile,
fammi la guardia come un carceriere:
che non nasconda piú, vanesia e vile,
verità vergognose e voglie vere.

 

C’è un solo incontro e non c’è un solo addio
e devo sempre stare sul chi vive:
nel grande cimitero dei miei io
vivo una vita tutta recidive.

 

<<Guardalo questo corpo: ti appartiene.>>
Non ho occhio che pesa e che misura
e per vedere veramente bene
mi serve il buco della serratura.

 

In questa stanza che non ha piú uscita,
come stormisce il sangue, e al suo stormire
è il mio turno di vivere… di vita…
Io so che sai che cosa voglio dire.

 

<<So solo quello che mi basta a stento
per non sprecare i battiti del cuore,
perché sapere, sappilo, è un tormento:
è sempre chi piú sa che ha piú dolore.>>

 

Per sogni d’ombre, per ombre di sogni
per l’avanzo d’infanzia che mi avanza
per questo niente vuoi che mi vergogni?
Per sogni d’ombre morte in lontananza?

 

<<Non mi piace il tuo stile da mistero
e reciti te stessa molto male.>>
Il sogno è l’infinita ombra del vero
e spesso è più reale del reale.