Paolo Marconi è nato nel 1958 a San Benedetto del Tronto (AP) e vive ad Ancona. Giornalista professionista, ha lavorato per 26 anni alla Rai, e in precedenza all’agenzia giornalistica Ansa e alla Utet. Ha pubblicato I giorni (1998), Per voi (1999), Per scherzo (2005) poi confluiti nella raccolta Sonetti 1981-2021 (Affinità Elettive) e Nuovi giorni – Sonetti vol. 2 (Affinità Elettive). Ha vinto il primo premio nella quinta edizione del concorso poetico Massimo Ferretti di Petritoli. Suoi sonetti sono apparsi su alcune riviste tra cui Orizzonti della Marca. È stato recensito dal quotidiano Corriere Adriatico. Laureato in farmacia, è specializzato in divulgazione scientifica: ha tra l’altro pubblicato un libro di cronobiologia con la Rizzoli (1994) e preso parte alla stesura dell’Enciclopedia Generale Mondadori (1988).

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POESIE

da SONETTI 1981-2021

Le domande che non ti ho fatto
Quante domande vorrei farti adesso
che non t’ho fatto quando il tempo c’era:
me le riporta il buio della sera
e un rimpianto che a volte non confesso.

Mai più saprò dov’è che avevi messo
le carte per le quali si dispera
ora mamma, mai più saprò se è vera
quella storia, e quel dì com’è successo.

L’immagine perfino ormai si vela
in mente; agli occhi restano, sospesi,
istanti che una pagina congela.

Ma tu, stanotte, portami in paesi
che non ci sono, e a lume di candela
raccontami di quel che non ti chiesi. 

Fuori è primavera
Quei camion sovraccarichi di bare
la schiera portan via che la prodezza
riuscì del boom a fare in giovinezza
e adesso in solitudine scompare.

Se ne vanno così, non si può fare
diversamente: il fiato che si spezza
senza un saluto, senza una carezza;
neanche la messa, non un familiare.

E noi qui rintanati, noi impotenti
guardiamo questa strage giornaliera
dietro persiane chiuse, a lumi spenti.

Piazze svuotate, niente è più com’era:
solo silenzio tutto intorno senti.
E intanto adesso, fuori, è primavera.

Tramonto
Gioca col mare, trova ovunque specchi,
quel che prima picchiava ora accarezza
il sole, con la stessa tenerezza
che scoprono man mano pure i vecchi.

La grande luce, prima che si secchi,
si spande fluida come questa brezza,
rincorsa dalla frotta che tappezza
il cielo: punti pallidi, parecchi.

S’avanza il buio, ma non turba ancora:
e culla anzi il chiarore che s’allenta,
e appaga che ogni cosa si colora.

Poi sarà notte, quella che spaventa,
ma non m’appeno, e godo di quest’ora
fin tanto che la luce non è spenta.

Fine d’inverno
Ne ho viste avvicendarsi di stagioni,
di estati, autunni, inverni, primavere,
e susseguirsi notti chiare e nere,
giornate luminose e con i tuoni.

Se lascio che la mente ne risuoni
ritornano le mille e mille sere
tiepide, chiare, lunghe da godere
o cupe, fredde, involte da nebbioni.

Eppure quando il giorno si scolora
con meno fretta, e scaccia il buio avanti,
di nuovo uno stupore mi rincuora:

come se non ne avessi scorsi tanti,
nel ciclico inseguirsi i mesi, ancora,
rimangono ogni volta appassionanti.

Solstizio
Ho atteso per sei mesi questa sera
che non finisce mai, e questa luce
che prima ci ha inondato, ora seduce:
l’estate che sognavo ma non c’era.

Ci aveva preannunciato primavera
radioso avanti a Castore e Pollùce
il sole in alto, e adesso si produce
un senso di promessa che s’avvera.

Eppure, nel trionfo del solstizio
non c’è soltanto ciò che più m’appaga:
non riesco a non vedere anche l’inizio

della discesa lunga che dilaga
fino al precoce buio natalizio.
Già quasi nostalgia, seppure vaga.

San Martino
Un alito dolcissimo di vento
accarezza le rose di un giardino
e me, che al sole tiepido cammino
ed altro non so esser che contento.

Tagliano il cielo terso a cento a cento
le rondini, volteggiano vicino
e subito s’impennano su, fino
a dove le raggiunge l’occhio a stento.

È strana questa finta primavera,
che è mite quanto quella e azzurra, e il cuore
risana in un’identica maniera.

Però è spento ogni fremito in queste ore
che cedono ogni giorno un po’ alla sera:
quel che allora nasceva adesso muore.

Ogni giorno è una storia
Scorre la vita come scorre un fiume:
un flusso irrefrenabile e costante,
diuturno dipanarsi che mediante
un unico racconto si riassume.

Eppure quando in cielo resta il lume
soltanto delle stelle tutte quante
fuggevole un capitolo a sé stante
si chiude tutti i dì, come un volume.

Quel tratto dall’aurora fino a sera
che rende discontinua la memoria
del tempo il lento correre incerniera.

E come prende avvio la traiettoria
sull’orizzonte, ancora, della sfera
comincia, ogni mattina, un’altra storia.

da NUOVI GIORNI

Finestre
Quanta vita s’è sporta ai davanzali
di tutte queste case dirimpetto.
Da lì faceva strepito un gruppetto
di bimbi che oramai non son più tali:

adesso si intravedono scaffali,
ché forse uno di loro è un architetto;
là stanno due sorelle, che – hanno detto –
non escon più ma sono sempre uguali.

E nell’appartamento al primo piano
su quel balcone dove un uomo anziano
sedeva spesso in abito e ciabatte

è secco, dentro il vaso, il melograno
e sono chiuse le persiane, sfatte.
A parte una, che ogni tanto sbatte.

Nuvole
Nel cielo azzurro candidi, lontani
corrono ciuffi di lucente spuma,
con forma che, mutevole, s’aggruma
fin tanto che la brezza la dipani.

Lì sembra che si tendano due mani,
si stringano, e che tutta quella piuma
la forma d’un ardente abbraccio assuma.
Giurare par si senta: “Noi… domani…”

Però non dura: in breve si trasmuta
la nuvola, diventa biforcuta
e si rabbuia, andando avanti al sole.

Due nembi poi si fa, che il vento aiuta
a perdersi ciascuno dove vuole:
nessun domani, niente più parole.

Campane
Rintocchi lenti di campane a morto,
lamenti uguali di un compianto antico,
per chi gemete voi, per chi, vi dico,
nell’aria riversate lo sconforto?

Qualcuno di cui mai non m’ero accorto?
Non ditemi che invece è per l’amico
che ormai non cerco più, non l’affatico,
non rendo il suo respiro ancor più corto.

Ripenso a noi bambini, a noi ragazzi,
risento le risate, gli schiamazzi,
rivivo sfide, vincite, sconfitte.

Quanti racconti al sole dei terrazzi
e quanti suoni in camere e soffitte…
Campane maledette, state zitte.

Il merlo
Cantava come solo un merlo canta,
cantava a tutte l’ore, e specialmente
quando il sole si fa meno cocente:
allora dalla cima di una pianta

fischiava col gorgheggio suo che incanta,
variato, melodioso, seducente.
Finché passa un gabbiano che lo sente,
gli piomba addosso e rapido lo agguanta.

Così stasera, all’ora del tramonto,
solo garriti di uccellacci, spinti
da nuova fame, vecchio tornaconto.

Tace quel canto ormai, tacciono i vinti,
e questa triste storia la racconto
per dire a cosa portano gli istinti.

Foglia d’autunno
Il vento di maestrale che gorgoglia
su una chioma finora più frondosa
le toglie ad ogni refolo qualcosa
rendendola, via via, sempre più spoglia.

M’attardo con lo sguardo su una foglia
che verde non è più, ma invece è rosa,
gialla, bruna: volteggia, poi si posa
lì dove ad osservarla il sole invoglia.

La guardo, e nel guardarla mi innamoro:
che meraviglia… che capolavoro…
La prendo in mano, la contemplo assorto

e ragiono: quant’ombra e qual ristoro
ne ho preso, e vedo adesso, ormai che è morto,
tutto il bello di cui non m’ero accorto.

Figlio di più
Non lo lasciare, tienilo per mano,
da solo non saprebbe dove andare;
traduci i gesti, le parole rare
che prova a dire in quel suo modo strano.

Ma va’ col cuore suo, che va lontano,
va dove nessun altro sa arrivare;
ma guarda con le sue pupille chiare
quel gioco che con lui non giochi invano.

Perché un bambino che non è cresciuto,
che è grande ma ha bisogno del tuo aiuto
non è figlio di meno, lo è di più:

occorre stargli appresso ogni minuto,
ma è privilegio, e no una schiavitù,
che questo possa farlo solo tu.

Davanti a quella tomba
Sistema i fiori, dice una preghiera,
guarda la data, uguale a oggi, asciuga
la brina che disegna qualche ruga
sul viso inerte. “Vado, mamma, è sera…”

Si volta, e scopre che lì dietro c’era
lei che ha lo stesso affetto: inciampa, fruga
nervosa in borsa, escogita una fuga
da quella che è da tempo una straniera.

Straniera, una sorella, ma per cosa:
la lite per la casa… quella stanza…
Poi, manco dir di un figlio che si sposa.

Si scambiano un’occhiata sospettosa,
stan lì, poi l’una verso l’altra avanza.
Si stringono, e nient’altro ha più importanza.

La partenza
Si ricorda, signora, quante volte
da quel balcone l’ha chiamato in strada?
“Mando tuo padre se non sali, bada…”
Le piante, ormai, da lì tutte le ha tolte.

Stavolta è lui il più forte: dopo molte,
lunghe insistenze ha fatto sì che vada;
e guardi per l’addio della contrada
che frotta di persone qui raccolte.

Da troppo tempo stava sola; lui
vive lontano e ha pochi giorni in cui
venir da lei: lo sa che mai lo trovo?

Ma no che non va incontro a tempi bui…
Non dica ospizio, è solo un posto nuovo…
Non pianga, no, ché anch’io poi mi commuovo…

Mare di gennaio
Chissà che c’era in quella mente pura
la mattina che uscisti così presto,
chissà che c’era nel tuo cuore mesto
per quella scalinata ancora scura.

Chissà, giù dove sempre la paura
di scender ti vietò, se ti sei chiesto
che rimedio ci fosse altro che questo
per una pena che non si misura.

Che anconetano sei, non sai nuotare…
Ma neanche ti serviva con quel mare,
e il mare di gennaio t’ha bevuto.

Poi quando il primo sole un po’ più chiare
ha reso l’acque, ormai non c’era aiuto
per quel congedo tuo, senza un saluto.

Bucha
È una resa per tutti quella fossa
che inuma senza nomi e senza croci
vite infrante da demoni feroci
e membra dilaniate e carni e ossa.

La resa di chi spera che si possa,
unendo dieci cento mille voci,
fermare il male prima che si sfoci
in qualche nefandezza così grossa.

La stessa resa a cui rimanda il pianto
della via crucis, del venerdì santo,
lo stesso oltraggio, quello stesso scempio.

La resa estrema che s’arrivi a tanto,
che s’accanisca sull’inerme l’empio.
Risorga l’uomo, con o senza un tempio.